E' uscito un nuovo quaderno:
Luca Lenzini
FRANCO FORTINI
Un profilo militante
Prefazione di Marta Margotti
«Fortini giace insepolto fuori dalle mura», ha scritto Rossana Rossanda; destino, questo, di chi si volle «voce poetica di quella parte del secolo che aveva tentato l’assalto al cielo d’un cambiamento del mondo, ha perduto ed è ricaduta fra le maledizioni del Novecento e l’inizio di un millennio che non ne sopporta il ricordo.»
È la volontà di cambiamento, infatti, a costituire il filo rosso dell’attività di Fortini come intellettuale, e proprio a quella volontà va ricondotto il costante tentativo di rimozione della sua presenza nel Novecento da parte dei gestori dell’opinione e dei difensori dell’esistente, ogni volta eguali e sempre diversi lungo il passare degli anni (come anche quelli, cinici e arroganti, dei nostri giorni.)
Il libro non intende fornire un’introduzione all’opera di Fortini bensì un ragguaglio sul suo percorso di intellettuale e sulle direzioni della sua militanza, colta attraverso alcuni momenti salienti nella partecipazione al dibattito ideologico e culturale (non solo nazionale) del suo tempo. È parso utile raccogliere alcune tracce che dal secolo scorso e dalle vicende di tutta una esistenza indicano speranze e sconfitte, illusioni e inganni del nostro passato, ovvero luoghi del conflitto tra chi al cambiamento ha dedicato le sue energie e facoltà e chi, in mille modi –volgari o astuti, obliqui o violenti– lo ha combattuto.
Fortini, «letterato per i politici, ideologo per i letterati», com’ebbe a definirsi (e sempre, pertanto, ospite ingrato, con il titolo di uno dei suoi libri più belli) molto prima del giudizio postumo di Rossanda aveva prefigurato contorni e origine del proprio destino, quando avvertì che «esistono […], e come, e ricordiamolo ad alta voce, coloro che ricevono la propria autorità e legittimità, il proprio diritto all’esercizio della critica e all’uso dell’intelligenza, da un mandato inverificabile, scritto su carta spesso sgualcita con caratteri mezzo scancellati dal tempo e firmato da sconosciuti: un vero e proprio mandato “assembleare”, di quella massa i cui voti non si contano ma si pesano, e dalla quale costoro vengono e a cui tornano. (dalla Nota introduttiva)
«I moderati toscani…»: indicando con un cenno il Lungarno da Vespucci a Corsini e oltre, una volta che in auto passavamo insieme il Ponte alla Vittoria, Fortini disse così, quasi parlando tra sé, in un a parte della conversazione. Sulle facciate dei palazzi dell’aristocrazia fiorentina, coreografia così consueta e celebrata da non esser quasi più percepibile allo sguardo nella sua connotazione storica e di classe, si rifletteva la luce del pomeriggio; ma niente, mi pareva, era in comune tra quel paesaggio e chi mi stava accanto. Per quanto nato a Firenze e lì vissuto fin oltre i vent’anni, Fortini era per me (e non solo per me) milanese: organico ad un modo d’essere e ad un background sociale ed economico che nulla aveva a che spartire con la storia di quella che era anche la mia città natale. La distanza tra lui e quei «moderati», ceto proprietario e di governo, non poteva essere più grande, abissale persino, almeno quanto lo era la skyline di Milano rispetto alle dimore affacciate sull’Arno. Non sapevo, allora, che Fortini era nato proprio sul Lungarno, ma sull’altro versante rispetto al Ponte Vecchio, e sul lato d’Oltrarno: al numero uno di Piazza Poggi, in una pensione di fronte alla Torre di San Niccolò. Piccola borghesia; anno il 1917, quello dell’Ottobre. (dal capitolo I. Modificazioni)
Completano il volume: Appendice I. Bibliografia; Appendice II. Bibliografia essenziale della critica, Appendice iconografica.
FRANCO FORTINI Nato a Firenze nel 1917, Fortini ha vissuto in quella città gli anni giovanili, laureandosi in Giurisprudenza e in Lettere, ed entrando in contatto con gli intellettuali che prima della guerra hanno fatto la storia della cultura italiana, da Montale a Noventa (di cui fu discepolo) e Vittorini. Richiamato alle armi nel 1941, dopo l’otto settembre riparò in Svizzera e partecipò alla Resistenza in Valdossola. Con la fine della guerra si stabilì a Milano, diventando redattore del «Politecnico». Dal 1948 al 1953 ha lavorato alla Olivetti; successivamente è stato collaboratore delle riviste «Comunità», «Officina», «Ragionamenti», «Il menabò», «Quaderni rossi», «Quaderni piacentini»; tra i quotidiani, prima dell’«Avanti!», poi del «Manifesto», del «Corriere della sera», «Messaggero», «II sole 24 ore». Dopo aver insegnato nelle scuole secondarie, dal 1971 al 1990 è stato titolare della cattedra di Storia della critica letteraria della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena, dove ha svolto l’intera carriera accademica (nella Biblioteca Umanistica sono ora conservati sia l’archivio sia i libri). È stato redattore e consulente editoriale delle più importanti case editrici italiane: Einaudi, Il Saggiatore, Mondadori, Garzanti. Nel 1985 gli fu conferito il Premio Montale-Guggenheim per la poesia. È morto a Milano nel novembre 1994.
LUCA LENZINI Luca Lenzini (Firenze, 1954) ha dedicato studi e commenti all’opera di Franco Fortini, Vittorio Sereni, Guido Gozzano, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Alessandro Parronchi e altri autori novecenteschi, non solo italiani. Suoi recenti interventi di attualità culturale sono in Il gatto di Arnheim e altri scritti clandestini (Ed. Zona, 2016). Dirige la Biblioteca Umanistica dell’Università di Siena ed è membro del Centro studi Franco Fortini.
Nei Quaderni dell'Italia antimoderata sono usciti:
Cosa sono I QUADERNI DELL'ITALIA ANTIMODERATA
I quaderni sono il frutto di un progetto di riscoperta, valorizzazione, documentazione di figure di spicco del secondo dopoguerra, scrittori e pensatori irregolari, espulsi o quasi dallo spazio pubblico intellettuale italiano, che si è pensato di riunire attorno al termine di antimoderati. Termine che ha necessità di alcune precisazioni: la prima è quella che è stato mutuato da un testo (Massimo Ganci, L’Italia antimoderata. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi, Guanda, Parma 1968, poi Arnaldo Lombardi, Palermo 1996), dedicato all'analisi dei contrasti tra Destra e Sinistra storica, all'indomani dell'unità d’Italia, e ad individuare il peso rilevante del trasformismo e del moderatismo sulla società italiana, fino ad influenzare pezzi anche rilevanti della sinistra di allora. La seconda è che è stato usato per la prima volta nel volume di Attilio Mangano, L'altra Linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova sinistra, Pullano, Catanzaro 1992. Si sarebbero potuti usare altri termini, come non regolare, scomodo, non inquadrato, ma questo è parso il più efficace per individuare coloro che, a partire dagli anni '50 e '60 del '900, hanno in comune alcuni fondamentali elementi metodologici: “Sono antimoderati coloro che credono e praticano la fedeltà di classe, il primato del soggetto-classe sul predicato-partito, mai fine e semmai mezzo, la conoscenza concreta attraverso la pratica dell'inchiesta, il lavoro dentro-e-fuori le organizzazioni. Sono antimoderati coloro che provano a realizzare nuove sperimentazioni teoriche e pratiche, fuori da quella che è la posizione consolidata e apparentemente inamovibile del togliattismo, fondata sulla convinzione che vada privilegiato il cambiamento dei rapporti di produzione, senza porsi l'obiettivo del cambiamento dei modi di produzione.
Sono antimoderati coloro che hanno la coscienza e la capacità di opporsi a chi vorrebbe depotenziare sempre e comunque tutte le espressioni di antagonismo e di autonomia dei ceti subalterni, tutte le posizioni di riflessione culturale e politica che non si ritrovano in questa linea di pensiero."
Come porsi nei confronti degli antimoderati e di quello che pare l'irreversibile processo di dispersione e di definitiva perdita della loro memoria? Certo non ha senso l'atteggiamento nostalgico che tende a rimpiangere i bei tempi andati e le conseguenti belle teste che non ci sono più.
Una prima modalità di approccio muove dalla constatazione dell'attualità di molte intuizioni, riflessioni, proposte non solo di natura teorica ma anche di natura politica.
Quando Raniero Panzieri parla del conflitto radicale che è presente nei modi di produzione e attacca, partendo da questa analisi, produttivismo e sviluppismo dominanti, pone una questione, che percorre, intatta, il nostro tempo. E facendolo da teorico che è, nello stesso tempo, militante politico, assolutamente lontano dai canoni della politica ufficiale del suo e del nostro tempo, esprime una posizione che, di fronte alla attuale irreversibile crisi della politica, può rappresentare una prospettiva credibile per dare ruolo e senso alla intellettualità diffusa.
Militanti politici di base di Danilo Montaldi, riletto oggi, indica l'utilità della inchiesta, come pratica della conoscenza diretta della realtà, dei luoghi e delle persone in carne ed ossa, non per sentito dire o per immaginato ai propri fini o costruito virtualmente.
Oggi che la distanza tra cultura e politica è abissale e l'incultura dimensione essenziale dei professionisti della politica, può servire porre la questione nei termini radicali di Franco Fortini che parla della saldatura necessaria tra teoria e pratica, cultura e politica, non come “trovata provvisoria” ma come “matrimonio di ragione”.
Fino ad arrivare a sostenere che i due termini sono la stessa cosa.
E si potrebbe continuare con molti altri esempi.
La seconda modalità riguarda il rapporto con la storia, e conseguentemente con la teoria, che si è sviluppata e compiuta in rapporto con la pratica politica, provando ad uscire dalla alternativa tra “imbalsamazione del passato e sua cancellazione”, come scrive Giovanni De Luna. Gli anni degli antimoderati sono stati quelli dei forti fermenti sociali, dell'impegno politico di intere generazioni, che vi hanno dedicato passione ed altruismo.
È necessario, nei confronti di questa realtà complessa, contraddittoria certo ma ricca di grandi idealità, mantenere, conservare e far crescere una memoria che non sia semplice ricordo, ma costruzione materiale elaborata nel presente, mezzo per acquisire orientamento critico e consapevole rispetto alla attualità, quindi capacità di analisi per il presente e di progettazione per il futuro.
Vorremmo, con questi quaderni, che gli antimoderati trovassero il modo di riprendere le strade del mondo, per trasmettere le loro idee e le loro sollecitazioni da usare nel presente a più soggetti possibili.
Antonio Schina
BRUNO BORGHI
Il prete operaio
Prefazione di Marta Margotti
Bruno Borghi: l'intelligente e scanzonato amico di Don Milani negli anni di seminario; altro prete comodo per le gerarchie ecclesiastiche quanto una manciata di puntine da disegno sulla sedia. Prete operaio, porta avanti con estrema coerenza il suo discorso pastorale, navigando imperterrito tra minacce continue di sospensioni a divinis (cioè interdizione dagli uffici sacerdotali) assai di moda nell'arcidiocesi fiorentina (Neera Fallaci, Dalla parte dell'ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano Libri, Milano 1974, p. 301). È solo uno dei tanti ritratti di questo uomo, che, come ricordava Lorenzo Milani, era forse l'unico prete che con la classe operaia sapesse parlare. Con lui, aveva mantenuto per tutta la sua breve vita grande affetto e profonda considerazione. Scriverà in una dedica del suo Esperienze pastorali, nel 1967, poco prima di morire: Ti ho considerato sempre un maestro per me. E ero sempre in soggezione perché te preghi e io no. E ora con un po' di malattia mi sono salvato l'anima lo stesso (citato in Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, tomo secondo, Lettere (1928-1967, p. 181, nota 1). Marta Margotti, docente di Storia Contemporanea dell'Università di Torino, autrice di saggi sulla realtà dei preti operai, sottolinea nella prefazione, come Bruno Borghi è stato"eccentrico", nel senso letterale "fuori dal centro", ma, proprio per questo, non meno protagonista di altri del secondo dopoguerra italiano, nella dimensione ecclesiale ma anche in quelle sociali, sindacali e politiche, attraversate nella realtà fiorentina a partire dagli anni '50 e '60 e arrivando all'inizio del nuovo secolo. Non è soltanto l'amico di Lorenzo Milani e il primo prete operaio italiano, come è stato finora ricordato in maniera del tutto insufficiente. E' È stato molto altro. Nel 1959 sostiene l'occupazione della Galileo, importante fabbrica fiorentina, vi partecipa e poi è presente al duro scontro di piazza, che segue lo sgombero, per le vie del centro di Firenze, anticipazione del protagonismo giovanile degli anni '60. Sarà sempre coinvolto nelle vicende sindacali, come militante della CGIL, fino al suo licenziamento dalla fabbrica chimica Gover, a cui seguono le sue lettere ai compagni operai, che al tempo avranno una vasta eco, e il processo per vilipendio alla magistratura. A livello ecclesiale, nel 1964, assieme a Lorenzo Milani, pone la necessità del confronto tra parroci e vescovo, senza censure, a concretizzare il messaggio di Giovannni XXIII e del Concilio, contrapponendosi alle chiusure dell'arcivescovo Florit. E' È sempre partecipe alla vicenda della comunità dell'Isolotto, in solidarietà della quale darà le dimissioni da parroco. Va ricordato, sul piano dell'impegno politico, che Bruno Borghi nel 1966, contribuisce, assieme ad altri preti e laici, alla stesura di un documento che segna, per la prima volta a Firenze, ma anche in Italia, la rottura, da parte di un gruppo consistente di cattolici, del collateralismo con la Democrazia Cristiana, arrivando all'invito a non votarla. Impegno che costerà a Bruno l'ennesima minaccia di sospensione a divinis, bloccata dall'intervento diretto di papa Paolo VI. A livello sociale, i suoi campi di intervento sono andati dal sostegno all'obiezione di coscienza, con una lettera che anticipa quella di Lorenzo Milani ai cappellani militari, alla partecipazione ai comitati spontanei di quartiere sorti dopo l'alluvione del 1966, dalle mobilitazioni dei cosidetti invalidi, considerati per la prima volta non in termini assistenzialistici ma come soggetti della lotta contro l'esclusione, dalla presenza come volontario nel carcere di Sollicciano al lavoro di cooperante internazionale in Nicaragua. Per tutto questo, si può ben dire che Bruno Borghi, anticonformista e ribelle, sempre guidato dalla convinzione che la manifestazione di una soggettività consapevole e partecipata degli "ultimi" potesse mutare lo stato delle cose presenti, è ascrivibile a pieno titolo tra gli antimoderati del ‘900 italiano. Completano il volume alcuni suoi testi (l'intervista sulla scuola di Barbiana, le lettere ai compagni operai della Gover e l'autodifesa davanti ai giudici del tribunale di Bologna), il documento programmatico del gruppo Contro l'esclusione, un reportage del 1969 su Bruno, inserito da Jacques Servien in un suo libro sull'esperienza dell'Isolotto, tradotto, per questa parte, per la prima volta in italiano, le note biografiche sui personaggi che compaiono nel testo, con indicazioni per eventuali approfondimenti, una bibliografia ( i testi di Bruno Borghi e su di lui, realtà politica, sociale ed ecclesiale fiorentina degli anni '60 e '70, preti operai).
Massimo Gorla. Una vita nella sinistra rivoluzionaria
di Fabrizio Billi e William Gambetta
Il libro ricostruisce la vita politica di Massimo Gorla (1933-2004) attraverso un cinquantennio dell'Italia repubblicana, dalla sua attività nel Psi e nel Pci, all'ondata conflittuale del "lungo Sessantotto", fino gli anni più recenti, successivi alla crisi del comunismo storico novecentesco. Egli fu una figura significativa della sinistra rivoluzionaria, tanto da essere un protagonista di rilievo ai vertici di diverse formazioni: prima nella Quarta internazionale, poi in Avanguardia operaia e Democrazia proletaria (di cui fu deputato per due legislature) e, infine, nell'Associazione per la pace. Politico dalla grande vivacità intellettuale, fu immune da schemi interpretativi rigidi e visioni dogmatiche. Al contrario, nei suoi scritti si può rintracciare il costante esercizio di leggere attraverso un marxismo critico eventi e fenomeni per comprenderne contraddizioni e complessità. Gorla scrisse moltissimo per riviste, quotidiani e documenti politici delle organizzazioni di cui fu un dirigente, senza riuscire però a sistemare organicamente in almeno un volume questa sua prolifica elaborazione. Invariati furono i principi che lo ispirarono, come la tensione ad accrescere il protagonismo di lavoratori e classi subalterne, la visione internazionale dell'analisi e la solidarietà ai popoli oppressi, la critica intransigente ai regimi del "socialismo reale", la necessità di contrapporsi alla disumanizzazione del sistema capitalistico e la riflessione su come agire - anche nelle lotte immediate - in una prospettiva di superamento della società esistente.
Guido Quazza storico eretico
di Diego Giachetti
Prefazione al libro
Utopia e realismo politico di Guido Quazza
Questo piccolo libro percorre vicende del secolo scorso apparentemente legate a una situazione locale. Torino vi appare ancora come la company town dove il potere della Fiat era fortissimo - né lo era meno a livello nazionale - sia nell'attività produttiva diretta, che prendeva carattere di assoluto monopolio nel settore automobilistico, sia nelle grandi scelte di politica industriale, di cui fu simbolo la presidenza di Gianni Agnelli alla Confindustria. La coincidenza dell'ambito urbano e del potere economico nazionale e sovrannazionale in esso radicato è uno dei presupposti che il lettore deve tenere costantemente presenti se vuole comprendere perché a molti giovani e meno giovani della sinistra poté sembrare, in quegli anni, che lotte economiche alla Fiat e impegno politico in Torino e nella sua Università potessero avere rilevanza generale e aprire prospettive di cambiamenti profondi nella società e nello Stato italiano
Il che spiega almeno in parte il frequente apparire, nel linguaggio spesso sovreccitato di allora, della famiglia di concetti legata al termine "rivoluzione".
Per capire la biografia politica e professionale di Guido Quazza, è necessario ricordare, d'altro canto, la situazione di arretratezza nella quale operava l'università in Italia, e a Torino in particolare. Priva delle due Facoltà del Politecnico, articolata secondo un ordinamento sostanzialmente identico a quello prebellico, per quanto riguardava le cosiddette "scienze umane" essa ospitava all'interno della Facoltà di Magistero modeste, mortificate presenze delle discipline pedagogiche, psicologiche, linguistiche moderne soprattutto occidentali, e geografiche. La sociologia si affacciava, timidamente, anche a Scienze politiche. La Facoltà di Lettere e Filosofia si apriva alle lingue orientali solo per le lingue antiche, a cominciare dal sanscrito. Nessuna concessione era fatta alle discipline contemporaneistiche: solo alla metà degli anni Settanta la storia contemporanea si sarebbe liberata dalla camicia di forza della tematica risorgimentale, mentre più faticosamente la letteratura contemporanea diveniva autonoma, e finalmente entrambe furono ammesse tra gl'insegnamenti impartiti. Cardine di questo sistema conservatore era uno strumento apparentemente burocratico, il piano di studi, consacrato da leggi dello Stato e da statuti universitari, che impediva qualsiasi scelta innovativa agli studenti, e che prolungava il suo influsso nelle condizioni richieste ai laureati per divenire insegnanti. A Magistero in particolare, la storia si riduceva a un solo insegnamento, il cui titolare avrebbe dovuto dominare da solo tutti gli spazi e i millenni.
Queste premesse sono necessarie per capire la polarizzazione dell'azione innovatrice di Quazza all'interno e all'esterno dell'Università, soprattutto dopo il suo arrivo alla Facoltà di Magistero di Torino dalla Scuola normale di Pisa. Una sede, quella, che lo aveva portato a confrontarsi precocemente con la protesta degli studenti, e dove il professorino torinese ebbe la saggezza di cogliere le novità. Per esempio il suo confronto diretto con Togliatti alla Normale, che Giachetti evoca come memorando, avvenne grazie a un programma promosso e finanziato con fondi gestiti dagli studenti - attraverso un comitato "di base" - per inviti che miravano ad allargare a economia e politica la didattica della Scuola. Alcuni di quegli studenti avrebbero avuto parte considerevole nell' "occupazione" del palazzo pisano della Sapienza verso la fine del 1964. E più d'uno (possiamo ricordare Adriano Sofri e Gianmario Cazzaniga) si ritrovò a seguire le lezioni e il seminario di storia economica tenuto da Quazza al palazzo dei Cavalieri.
Queste esperienze, nelle quali il giovane docente si mosse con prudenza, aiutano a spiegare la sua abilità nell'affrontare, qualche anno dopo, la situazione creata dall'occupazione di Palazzo Campana. E spiegano forse la relativa parzialità dei rapporti di Quazza con i movimenti giovanili, la sua vicinanza a "Lotta continua", di cui conosceva personalmente i fondatori a Pisa e a Torino, e la sua estraneità a gruppi come "Potere operaio".
Ma Giachetti ci dimostra soprattutto che la prima stagione "torinese" del neocattedratico fu comunque straordinaria per ampiezza e organicità di vedute, e per la prontezza con cui egli collegò le pressioni politiche esterne al conseguimento di un solido potere istituzionale interno al sistema accademico. Incominciò allora, stimolato largamente dal "preside" Quazza, un processo di modernizzazione del quale ha beneficiato tutta l'Università italiana, e ci sembra importante ricordarlo di fronte a considerazioni ricorrenti sul declino delle istituzioni accademiche, che è dovuto a ben più complesse e recenti ragioni che il movimento del "Sessantotto", e i cui responsabili sono ancora all'opera.
Qui mi sembra doveroso perciò ricordare che, alla fine della lunga stagione della presidenza di Quazza, il Magistero di Torino, se non si convertì nella superfacoltà che egli aveva sognato, poté fornire un solido fondamento alle nuove Facoltà di Psicologia, di Lingue e di Scienze della formazione, e nei diversi dipartimenti assicurò una presenza molto significativa alle discipline geografiche e sociologiche, alle lingue moderne dell'Europa orientale e dell'Asia e, ovviamente, alla storia contemporanea europea ed extraeuropea. Quelli che erano stati all'inizio semplici "indirizzi" della laurea in pedagogia in una sola Facoltà, divenivano finalmente autonomi curricula di formazione moderna. La sola constatazione di quanto normale questo fatto ci sembri rende giustizia all'impegno innovatore che apparve eversivo, e che era semplicemente di adeguamento ai tempi, di un organismo sclerotico, prigioniero delle proprie logiche di reclutamento e di autoriproduzione.
Queste considerazioni vorrebbero indurre ad apprezzare quanto ci pare giusto l'azione di Quazza, che si fondava su una visione generale molto ampia, e che si scontrò infinite volte con le esigenze di corto periodo del mondo universitario, ma soprattutto di quello politico extrauniversitario. Ciò determinò un logorio e anche, da parte di lui, errori che fecero fallire esperienze come quelle di cui Giachetti ci parla, quando Quazza si mosse in spazi propriamente politici. La fine dell'esperimento "unitario" antifascista a Torino coincise in effetti con il successo delle sinistre alle elezioni amministrative, inatteso trionfo che sembrava premiare una politica di moderazione piuttosto che una di mediazione con i movimenti più radicali. Ma di fatto Guido trovò poi, nella nuova amministrazione, più di un appoggio nel promuovere programmi di innovazione didattica e di "aggiornamento" degli insegnanti in servizio (un campo a cui tenne sempre, fino all'ultimo, e nel quale s'impegnò moltissimo), e il successo di iniziative di vasta portata, come il "settembre pedagogico" da lui organizzato, e appoggiato dal Comune di Torino, che sarebbe stato stroncato solo da un intervento diretto della burocrazia romana con il negare a tutte le municipalità italiane la competenza in materia.
Anche fallì in parte il progetto di fare dell'Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia un centro di riferimento nazionale per lo studio della storia d'Italia. Sorde resistenze si manifestarono in più modi, ma soprattutto dopo la morte di Quazza ancora si vide come la storia contemporanea era temuta, e combattuta con armi burocratiche. In pratica si trattò del rifiuto di proseguire nell'esperienza che riservava al Novecento tutto l'ultimo anno di studi storici nelle medie superiori, e del ritorno all'accorpamento in un solo anno scolastico dei due secoli più recenti. Il che toglieva lo spazio per ogni approfondimento o semplicemente per lo studio manualistico di un intervallo cronologico troppo fitto ed esteso. E per l'Istituto nazionale, che era stato una struttura portante del programma d'insegnamento del Novecento, segnò l'inizio di un processo di emarginazione.
Vorrei concludere però queste sommarie note non con il ricordare il grigiore delle lunghe guerriglie istituzionali e burocratiche, ma un episodio dove ancora una volta brillò la capacità di Guido di proporre idee e iniziative di vasta portata. Si tratta del suo intervento al Sedicesimo congresso mondiale di scienze storiche, tenuto a Stoccarda nell'agosto 1985. Là egli propose e contribuì ad ottenere che gli storici di quelle che ancora si chiamavano "le due Germanie" presentassero per le conclusioni del congresso un documento comune. Ciò avveniva quattordici anni dopo l'erezione del "muro", che sarebbe fisicamente crollato solo nel novembre del 1989. Guido era stanco, quasi al termine di un impegno logorante di organizzatore e di studioso che voleva tuttavia mantenere - come dimostrò con la monografia su Quintino Sella del 1992 - anche un serio impegno di ricerca. Ma fu tra i più lungimiranti a vedere nell'avvenire la necessità di un cambiamento epocale che oggi, come molte altre sue intuizioni, ci appare tanto più importante quanto più sembra ovvio.
Gianni Perona
Stefano Merli. Uno storico militante
di Franco Toscani e Attilio Mangano
Tutta la ricerca storica e teorico-politica di Stefano Merli (1925-1994) è percorsa da cima a fondo dal filo conduttore del socialismo etico-libertario. Il suo capolavoro storiografico è rappresentato dall'opera in due volumi pubblicata nel 1972-1973 presso la Nuova Italia di Firenze: Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, brulicante delle vicissitudini di lavoro e di vita di una moltitudine di lavoratrici e lavoratori italiani della fine dell'Ottocento. Accademico fra i più antiaccademici, naturalmente anticonformista, Merli fu docente universitario a Siena, Venezia e Milano. La sua straordinaria attenzione alla soggettività concreta, in carne e ossa dei lavoratori, alle reali condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, ai temi dello sfruttamento e dell'alienazione nasceva proprio dalla stessa personale esperienza di Merli nel mondo contadino e operaio della sua infanzia e gioventù. Lo sguardo storico di Merli non era soltanto retrospettivo, perché il suo ritorno indietro, alle origini del movimento operaio voleva essere ed era al tempo stesso un balzo in avanti, un protendersi verso un nuovo inizio, verso l'avvenire della sinistra e del socialismo. La storia del movimento operaio va per lui sempre riletta alla luce e ai fini di una nuova ripartenza della sinistra. L'autentica cultura storica è dunque rivolta a produrre nuova storia, all'invenzione della realtà storica e politica. Egli è cosìuno storico militante in senso pieno e forte, come dimostra il suo lungo impegno prima nel Psi, poi nel Psiup e nelle formazioni politiche della nuova sinistra negli anni Settanta e all'inizio degli anni Ottanta. Nei suoi ultimi scritti e corsi universitari, Merli torna a riscoprire figure spesso dimenticate o sottovalutate della tradizione socialista e democratica italiana (come, ad esempio, Silone, Faravelli, Caffi, Matteotti, Buozzi, Colorni, Chiaromonte, etc.) e a riflettere sul rapporto tra correnti politico- sociali cristiane e socialiste. Merli ci lascia in eredità un'idea di socialismo etico e libertario, federalista e autogestionario che prevede - in una duplice direzione polemica nei confronti da un lato del totalitarismo comunista e dall'altro dello pseudoriformismo di piccolo cabotaggio - la partecipazione attiva e concreta del popolo al potere.
Terzo volume della Collana
Il marxismo militante di Raniero Panzieri
Cesare Pianciola
Di Raniero Panzieri (Roma, 1921-Torino 1964) - socialista di sinistra di formazione che all'inizio degli anni Sessanta dette vita a Torino all'esperienza originale e autonoma dei «Quaderni rossi» – Vittorio Foa ha scritto che «reintrodusse, in forma non scolastica o accademica ma militante, il marxismo teorico in Italia». Nei suoi scritti e nelle sue parole c'era un Marx vivo, liberato da schemi dottrinari, riattualizzato per interpretare il capitalismo contemporaneo e trarne strumenti per le lotte sociali, in quel periodo di tumultuoso sviluppo, di grandi migrazioni interne e di passaggio dell'Italia alla maturità industriale, che fu chiamato “neocapitalismo”. Il saggio di Pianciola – completato da una antologia di brani su Panzieri e sui «Quaderni rossi», da una postfazione di Attilio Mangano e da una bio-bibliografia a cura di Antonio Schina – traccia un profilo delle principali alternative teoriche della sinistra tra gli anni Cinquanta e Sessanta (“gramscismo” e storicismo delle dirigenze del Pci, rigorizzazione logico-metodologica perseguita da Della Volpe e dalla sua scuola, riscoperta delle opere giovanili di Lukács e di Korsch, innesti fenomenologici e francofortesi), per collocarvi la genesi di un marxismo diverso, che fece di Marx un uso politico diretto che rifiutava le mediazioni istituzionali della sinistra tradizionale: il cosiddetto “operaismo”, che avrà declinazioni divergenti in Panzieri, in Mario Tronti, in Toni Negri. In Panzieri troviamo la critica della visione apologetica del progresso tecnico-scientifico diffusa nella tradizione marxista: le forze produttive non sono neutre ma plasmate dai rapporti di produzione; la tesi che è il piano e non l'”anarchia” a caratterizzare il capitalismo contemporaneo e che, inversamente, la pianificazione non è sufficiente a caratterizzare il socialismo; la convinzione che nelle lotte dei lavoratori si manifesti l'istanza di una democrazia non delegata, come potere diretto a partire dai luoghi di produzione. Ma forse l'aspetto più fecondo della sua ricerca è stato l'uso socialista dell’inchiesta operaia. Lo stesso Capitale di Marx gli appariva un grande abbozzo di sociologia delle classi. Riteneva il metodo dell'inchiesta indispensabile per «sfuggire ad ogni forma di visione mistica del movimento operaio». Riattualizzando Marx, Panzieri raccomandava di non ripetere, banalmente e scolasticamente, formule marxiane che rischiano di avere «semplicemente un valore consolatorio». Ma oggi è auspicabile un uso più libero e critico della vasta e multiforme eredità marxiana, anche rispetto ai marxismi “eretici” del Novecento e al contributo di Raniero Panzieri. Marx – suggerisce Pianciola – continua ad essere un “classico” imprescindibile, ma non immediatamente trasferibile in un programma politico come apparve cinquant'anni fa.
Cesare Pianciola (Torino 1939) si è laureato con Nicola Abbagnano e ha lavorato con Pietro Chiodi come assistente presso la cattedra di Filosofia della storia dell'Università di Torino. Docente di storia e filosofia nella Secondaria superiore fino al 1994 e di Analisi di testi filosofici dal 2001 al 2008 presso la S.I.S. di Torino, ha collaborato con articoli e recensioni a «Rivista di filosofia», «Quaderni piacentini», «Linea d'ombra», «école». Fa parte del comitato editoriale de «L’Indice dei libri del mese» e del consiglio direttivo del Centro studi Piero Gobetti (al quale ha dedicato vari saggi, tra cui Piero Gobetti. Biografia per immagini, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2001). Condirettore fino al 2011 del periodico «Laicità», è vicepresidente del Centro di Documentazione Ricerca e Studi sulla Cultura Laica “Piero Calamandrei”. Ha studiato Marx (Il pensiero di Karl Marx. Una antologia dagli scritti, Torino, Loescher, 1971; Teoria marxiana, in Il mondo contemporaneo. IV. Storia d’Europa, Firenze, La Nuova Italia, 1981) e con Franco Sbarberi ha curato e introdotto la raccolta di inediti di N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile, Roma, Donzelli, 2014. Ha scritto anche su Hannah Arendt e sulla filosofia contemporanea italiana e francese.
Secondo volume della Collana
Giovanni Pirelli
di Cesare Bermani
A cura di Antonio Schina
I quaderni dell'Italia antimoderata, dopo il primo numero dedicato a Luciano Bianciardi, proseguono il loro lavoro di riscoperta e valorizzazione di figure di spicco del secondo dopoguerra (espulse o quasi dallo spazio pubblico intellettuale italiano) tramite un'opera dedicata a uno dei più singolari personaggi del '900 italiano, Giovanni Pirelli. Il ritratto di Pirelli che emerge con forza da queste pagine tiene conto della complessità di un personaggio che in vita fu contemporaneamente letterato, scopritore di talenti, editor ante litteram, infine - perché negarlo? - finanziatore di case editrici e di riviste non banali come le edizioni del Gallo o i «Quaderni rossi». La vita e le opere di Giovanni Pirelli hanno così finito per incrociare e agevolare un'intera generazione di intellettuali, scrittori, storici, giornalisti in un periodo così fondamentale per la storia d'Italia. L'opera di Giovanni Pirelli è un susseguirsi di quell'impegno civile dell'intellettuale che è il vero fil rouge di questa raccolta di Quaderni.
Primo volume
Luciano Bianciardi
di Giuseppe Muraca
La figura di Bianciardi campeggia ormai come un classico e continua a consegnarci
il ricordo dell' Italia del miracolo economico e del neocapitalismo degli anni
sessanta, quella "grande trasformazione" che lo scrittore riesce a cogliere con
ironia graffiante, da "cane sciolto" e battitore libero in un mondo che aveva
bisogno di irregolari come lui , anche se allora ai riconoscimenti e ai successi
si aggiungevano le polemiche e i litigi, Bianciardi non perdeva un colpo e
rispondeva a sua volta. Ricostruire vita e opere, scrittura e comunicazione
pubblica come fa Giuseppe Muraca è dunque una scelta politica e culturale di grande
spessore e aiuta il lettore a capire le finalità di questa stessa collana, che
intende appunto riscoprire, valorizzare, documentare il ruolo di scrittori e
pensatori irregolari, espressione di quella che vorremmo chiamare una Italia
anti-moderata, una definizione che merita comunque delle precisazioni particolari
a scanso di equivoci. Questo primo volume è a suo modo una occasione iniziale
per una riflessione più generale sull'uso del termine antimoderati nella nostra storia.
Le origini del termine stesso vanno fatte risalire a miei lavori precedenti
(in particolare a L'altra Linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova
sinistra, Catanzaro, Pullano 1992, che fu proprio l'amico Giuseppe Muraca a
voler fare pubblicare).
Il termine è stato mutuato da un testo che analizzava i contrasti tra Destra e
Sinistra storica all'indomani dell'unità d'Italia e individuava il peso rilevante
del trasformismo e del moderatismo sulla società italiana, fino ad influenzare
pezzi anche rilevanti della sinistra di allora. Si riferisce nello specifico a
coloro che a partire dagli anni '50-'60 del Novecento hanno in comune alcuni
fondamentali elementi medologici:"Sono antimoderati coloro che credono e praticano
la fedeltà di classe, il primato del soggetto-classe sul predicato-partito, mai
fine e semmai mezzo, conoscenza concreta attraverso la pratica dell'inchiesta,
lavoro dentro-e-fuori le organizzazioni. Sono antimoderati coloro che provano a
realizzare nuove sperimentazioni teoriche e pratiche, fuori da quella che è la
posizione consolidata e apparentemente inamovibile del togliattismo, fondata sulla
convinzione che vada privilegiata la trasformazione dei rapporti di produzione,
senza porsi l'obiettivo del cambiamento dei modi di produzione. Sono antimoderati
coloro che hanno la coscienza e la capacità di opporsi a chi vorrebbe depotenziar
e sempre e comunque tutte le espressioni di antagonismo e di autonomia dei ceti
subalterni, tutte le posizioni di riflessione culturale e politica che non si
ritrovano in questa linea di pensiero".
Certo, proprio per questo riferimento in qualche modo post risorgimentale il
termine va usato con cautele particolari, non è insomma una scelta di richiamo
a una sorta di democrazia radicale che anticipa il movimento socialista. Se ne
potrebbero usare altri, come non regolare, scomodo, non inquadrato, ma questo
pare il più efficace. Non nel senso di una nostalgia per un'Italia che non c'è
ma proprio per tornare a interrogarsi sul mescolarsi delle culture politiche e
sulla loro possibile attualità.
La prima modalità è quella dell'attualità di molte intuizioni, riflessioni,
proposte non solo di natura teorica ma anche di natura politica o anche tali per
cui i due termini si fondono indissolubilmente.
Servono qui alcuni esempi per spiegare questa considerazione. Quando Raniero
Panzieri parla del conflitto radicale che è presente nei rapporti di produzione
e attacca, a partire da questa analisi, produttivismo e sviluppismo dominanti,
pone una questione che percorre ancora, intatta, il nostro tempo. E nella misura
in cui lo fa da teorico alto, che è però nello stesso tempo militante politico di
base, esprime una posizione assolutamente lontana dai canoni della politica
ufficiale del suo e del nostro tempo. Una posizione che, di fronte alla attuale
irreversibile crisi della politica, può essere una prospettiva credibile per
dare un ruolo ed un senso alla intellettualità diffusa.
Franco Fortini parlava, con grande vigore, della necessaria saldatura tra teoria
e pratica, cultura e politica: l'unità tra cultura e politica non è una trovata
provvisoria, un matrimonio di ragione.
Fino ad arrivare a sostenere che i due termini sono la stessa cosa. Appunto, sono
la stessa cosa ma sono oggi due cose diverse, in un mondo di politica senza
cultura e di cultura senza politica. Ritornare a unire i due poli è il compito
di questa collana, che vuole proseguire
Attilio Mangano