Gennaio-Aprile 2020
L’ipotesi di raccogliere collettivamente l’eredità della rivista Primo Maggio. Saggi e documenti per una storia di classe, pubblicata tra il 1973 e il 1989, si è rafforzata dopo la pubblicazione del numero speciale in omaggio a Primo Moroni (uscito come Supplemento a Altronovecento presso la Fondazione Micheletti di Brescia) nel marzo 2018. Alla gestazione del nuovo progetto ha partecipato un gruppo ete-rogeneo per formazione, provenienza geogra ca, sensibilità culturaleed esperienza politica. Ne è sortito un manifesto, che si può scaricare dal sito, e una rivista digitale e cartacea come uno strumento di inter- vento politico nel quotidiano.

Redazione: Andrea Bottalico, Emanuele Caon, Riccardo E. Chesta, Matteo Gaddi, Carlo Tombola, Sara Zanisi.

Sommario del primo numero

Le contingenze ci hanno imposto di iniziare il primo numero in modo imprevisto: tracciare una panoramica della situazione che si va delineando a seguito dell’emergenza da Covid-19. L’Editoriale dipinge alcuni scenari e abbozza piste di ricerca, segue poi Emergenza Covid-19. Intervista a Vittorio Agnoletto con cui proviamo a fare il punto sulla sanità italiana. Il grosso dei contributi fa massa attorno alla questione lavoro così come si configura rispetto al nuovo salto tecnologico. Industria 4.0 e lavoro operaio affronta di petto i cambiamenti, i rischi e le forme di controllo soggiacenti alla retorica avveniristica con cui si rappresenta il lavoro ai tempi di Industria 4.0. Industria 4.0, modello tedesco. Dove è finito il lavoro? esamina il piano elaborato dal governo tedesco per far fronte alle conseguenze sociali e lavorative derivanti dalla svolta tecnologica del sistema produttivo; argomento che invece par essere stato dimenticato dalla politica italiana. 

Si passa poi a un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e sulle forme di organizzazione dei lavoratori, Conflitti nel Taylorismo Digitale. Le lotte dei drivers di Amazon a Milano. Abbiamo poi raccolto esperienze dirette, tentativi di organizzazione, pratiche sociali e politiche. Si tratta di speranze, occasioni per pensare, esempi con cui confrontarsi. In La “Passione” di lavoratori e lavoratrici dell’editoria i risultati di un’inchiesta ci illustrano la situazione del lavoro freelance nell’industria editoriale. Insegnare con le macchine. Le scuole di lingua nell’economia delle piattaforme entra nel vivo delle rivendicazioni delle e degli insegnanti di inglese nelle scuole Wall Street English. Con Lo sguardo del drone su Milano partecipiamo al dibattito sul mito del “modello Milano”, provando a spostare l’attenzione dalle politiche urbanistiche alla politica in generale, e soprattutto alla partecipazione e al ruolo dei privati. Infine, con Pratiche per l’egemonia: il mutualismo e Cartoline dal Nordest: Berta si racconta, ragioniamo su questa pratica sociale e politica, sulle sue potenzialità e diamo voce a un’esperienza diretta di mutualismo a Padova. Storia di due marxismi: in ricordo di Erik Olin Wright propone un testo inedito in italiano in cui Michael Burawoy presenta l’opera del sociologo e attivista statunitense: è in realtà un confronto tra due marxisti che speriamo possa essere utile, non solo per riflettere, ma anche per agire la realtà. 

Infine chiudiamo con il Manifesto di Officina Primo Maggio, un documento che apre questa nuova stagione della rivista.

Oltre il capitale

Associazione Estella •Via Grazia Deledda, 6• 76121 Barletta • e-mail: info@oltreilcapitale.it

Riportiamo dall’editoriale del primo numero la presentazione della rivista e le copertine dei primi cinque numeri usciti finora.

Con questo primo numero – numero zero – dedicato all’Europa inauguriamo la rivista Oltre il Capitale, con cui intendiamo avviare un percorso di analisi e di confronto politico per contribuire alla rinascita della Sinistra.

Si tratta di una iniziativa tanto ardita quanto necessaria a nostro parere, che si colloca in un momento storico in cui appare, forse per la prima volta in modo così nitido, la schiacciante sconfitta della Politica per come l’avevamo conosciuta nel Novecento. Quella Politica battuta dalle forze del capitale sul campo delle grandi lotte operaie, ridotta oggi ad astratto simulacro, a corazza che impedisce di vedere il mondo, a teatro spicciolo per esibizioni performative di capi e capetti in cerca di visibilità.

E quando muore la Politica, muore la Sinistra. (…)  La sfida che abbiamo di fronte, anche attraverso questo nostro piccolo progetto editoriale, non può che muoversi su entrambi i livelli e porsi l’obiettivo ambiziosissimo, tutto politico, di definire un nuovo progetto, rimettendo al centro grandi ideali e valori di riferimento. Un progetto che ricostruisca le connessioni tra i soggetti del conflitto e che faccia da collante tra la miriade di solitudini, sofferenze, povertà provocate da un sistema di sviluppo sempre più iniquo e brutale. Cogliere i nessi tra le contraddizioni, segnare l’orizzonte del cambiamento del presente, illuminare la realtà disvelandone le ingiustizie e le cause che le determinano, indicare la strada per superarle: tutto ciò sarà possibile solo se saremo in grado di mettere in campo un pensiero forte. Noi vogliamo che la sinistra torni a rinominare il mondo e a dare senso alle vite, con la capacità di parlare agli uomini e alle donne che vivono sulla propria pelle lo sfruttamento e l’esclusione, offrendo loro una prospettiva concreta di trasformazione dell’esistente.  (…) Presenteremo numeri monografici per mettere a fuoco di volta in volta le grandi questioni del presente aperte in Italia, contestualizzandole nel campo europeo, con uno sguardo fermo su quanto accade nel resto del mondo.

Hanno scritto sull’ultimo numero della rivista: Ernesto Burgio, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Roberto Romano, Luigi Vinci, Tommaso Fiore, Mauro Valiani, Salvatore Di Fede, Marco Bersani, Giulio Marcon, Sandro Gobetti, Maurizio Brotini, Alba Sasso, Massimo Villone, Letizia Paolozzi, Sergio Segio, Anna Simone, Carolina Antonucci, Simone Pieranni, Lavinia Clara Del Roio e Teresa Isenburg, Marzia Ravazzini

Segnalazioni

Fascismo, Antifascismo, Resistenza

A. Rosenberg, Il fascismo come  movimento di massa, La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Pagine marxiste 2019, pp. 176  € 10,00 
L’autore in questo volume scritto nel 1934 traccia una storia del fascismo dalle sue origini italiane agli sviluppi del nazismo tedesco, indicandone similitudini e differenze, ma senza mai omettere che è stata la stessa “democrazia liberale” ad averlo portato in seno, almeno fin dalla prima guerra mondiale.

F. Finchelstein, Per una storia della menzogna nel fascismo, Eum 2019, pp. 75    6,00
Questo saggio analizza come il fascismo identifica la verità con un mito trascendentale radicato nell’inconscio collettivo e poi espresso da e attraverso la coscienza del leader. Credere nelle menzogne fosse parte dell’educazione totalitaria dei seguaci.

A. Guarnieri, Il fascismo ferrarese, Dodici articoli per raccontarlo, Tresogni 2011, pp. 158 € 12,00
Questo libro fa vedere in modo chiaro come lo squadrismo fascista, sovvenzionato dagli agrari, riuscì a distruggere e zittire ogni forma di resistenza. Tutto questo contro la tendenza revisionista che ci fa credere che il fascismo fosse un regime voluto e scelto liberamente dal popolo italiano.

Aa.Vv., Il fascismo dalle mani sporche, Laterza 2019, pp. 247 € 22,00
È una raccolta di saggi di undici prestigiosi ricercatori universitari che hanno scelto casi emblematici di un regime che del malaffare aveva fatto un sistema. Raccontano fatti e misfatti di un’epoca che, in questi tempi di revisionismo, molti accreditano come un periodo privo di corruzione. E invece qui la tesi di un fascismo moralizzatore, incorruttibile ed intransigente viene confutata e si dimostra che dittatura, corruzione e affarismo erano in simbiosi smentendo una concezione “romantica” del fascismo, in cui il Duce era maestro di propaganda, sceso in campo per fare pulizia di una “Italietta” corrotta, mediocre ed intrallazzista. Con lui prende forma uno Stato diverso “nuovo” rappresentato da figure radicali come quella di Farinacci. Un radicalismo che serviva a tracciare la strada verso il potere con metodi da gangster ed uno squadrismo spietato; proprio Farinacci era inoltre specialista di dossier costruiti ad arte con notizie vere o verosimili sui suoi avversari. Nei vari saggi si indaga la filosofia degli alti gerarchi, veri ras del sistema di cui vengono riportate le vicende che ricompongono un velo falso che doveva coprire un’altra realtà. Si consolidò in questo modo un sistema di potere che portò l’affarismo, la grettezza morale e la corruzione sin dentro i gangli dello Stato. Questi cosiddetti “uomini nuovi” erano in realtà una casta di disinvolti accaparratori e Mussolini non si mosse per un’opera di repressione poiché avrebbe dovuto rimestare nel fango su ricchezze improvvise ed ingiustificabili mettendo in crisi una narrazione retorica di un regime raffigurato come presidio di massima onestà. Vi era una realtà che allo stesso Mussolini di certo non poteva sfuggire per l’azione della Polizia politica, l’Ovra, con una vasta rete di spionaggio. Dagli Archivi di Stato vengono alla luce documenti che attestano segnalazioni, denunce, dossier e iniziative per verificare in loco quello che accadeva. Il Duce era in possesso di sufficienti elementi di conoscenza su quale sistema si stava consolidando dietro la falsa immagine di moralismo e di perbenismo. E questo viene dimostrato da quello che egli stesso scrive a Farinacci che si professava un pezzente a cui risponde che forse lo era nel 1922 ma non lo era di certo rimasto dopo, specie nel 1928, VI anno dell’E.F.: “I veri pezzenti non vanno in automobile e non frequentano alberghi di lusso, la demagogia del falso pezzentismo mi è odiosa come l’esibizionismo pescecanesco.” Ma non erano certamente 10 o 20 ras di alto rango a organizzare un vero e proprio furto continuo: era nella logica del fascismo appropriarsi dei beni pubblici e dei beni comuni per farli propri anche attraverso vere e proprie bande organizzate. Non a caso è presente un saggio sulla grande predazione di soldi pubblici e non solo, nell’avventura farsesca dell’Africa Orientale Italiana, dove migliaia di piccoli squallidi omuncoli tentarono le numerose scorciatoie che la fantasia italica forniva loro per arricchirsi alle spalle di altri italiani e naturalmente degli etiopi e degli eritrei. Insomma, non solo delinquenti politici, ma i fascisti erano in larga parte anche delinquenti comuni. Un buon lavoro storico che demolisce un altro presunto mito. (i.b.)

G. Marchitelli, Campi fascisti, Una vergogna italiana, Jaca Book 2020, pp. 219  € 20,00
L’Italia non ha mai fatto i conti con la vergogna delle repressioni attuate dal regime fascista durante il ventennio, ma la democrazia ha bisogno di tenere viva la memoria degli eccidi, delle torture, delle violenze fasciste di cui fu pervaso il nostro Paese dal 1920 alla fine della seconda guerra mondiale. Questo libro illustra il numero dei luoghi di detenzione di ogni tipo che il regime aveva costruito per internare gli oppositori, gli antifascisti, gli ebrei, i «diversi» e i prigionieri di guerra utilizzati in campi di lavoro coatto e coercitivo. L’autore racconta  come il mito «Italiani brava gente» sia un enorme e abominevole falso storico. Conoscere, sapere, raccogliere testimonianze è il vero antidoto affinché non abbia mai più a ripetersi una vergogna come quella del regime fascista.

C. Magistro, Adelmo e gli altri, Confinati omosessuali in Lucania, Ombre corte 2019, pp. 206  € 18,00
Il libro nasce come approfondimento di una mostra fotografica che l’autore ha portato in diverse città d’Italia. Durante il regime fascista, l’omosessualità era additata come una malattia, ma anche come un vizio che poteva essere “diffuso”. Per “rieducare” gli omosessuali (indicati col termine di “pederasti”) era necessario ricorrere alla pena del confino. La prima parte del libro espone nel dettaglio il confino come strumento politico e giuridico, individuando diversi casi particolari (anche di preti pedofili). La seconda parte è un elenco di storie, ordinate alfabeticamente in base ai nomi di battesimo dei protagonisti del confino, iniziando da Adelmo, e proseguendo con tutti gli altri. La “pedagogia” fascista, comunque, non valeva per i “vizi” dei gerarchi, dei podestà e degli uomini importanti: il loro “vizio”, insomma, era un problema, ma non poteva esserlo. La rieducazione era obbligatoria solo per sarti, antennisti, studenti, tipografi…

I. Cipriani, Balilla blues, Diario di una liberazione, Terre di mezzo 2017, pp. 334   € 14,00
Ivano è figlio di antifascisti, ma di antifascismo non sa nulla. Nella speranza di garantirgli un futuro i genitori lo tengono all’oscuro dei loro ideali lasciando che cresca nel solco della propaganda. Finché, ormai adolescente, la scoperta del blues – la musica del diavolo (e del “nemico”) – farà saltare una volta per tutte “il lucchetto delle mie catene invisibili”.  Acuto e ironico, a tratti esilarante, Cipriani racconta i fervori e i drammi dell’Italia durante il Ventennio e la conquista della libertà.

M. Ugolini, Il Carmine ribelle, Storia dell’antifascismo nei quartieri popolari del centro storico di Brescia, dal “biennio rosso” alla Resistenza, Red Star Press 2018, pp. 260     € 20,00
L’obiettivo di questo lavoro è quello di ricostruire una memoria antifascista in grado di completare e arricchire la ricca bibliografia resistenziale a Brescia, attraverso la storia di un quartiere, troppo spesso considerato solo come malfamato e problematico, mettendo al centro la sua umanità naturalmente antifascista.

M. Taborri, Via libera! Ferrovieri contro il fascismo nella capitale (1922-1944), Edizioni Ancora in Marcia 2018, pp. 79                 s.i.p.
La partecipazione dei ferrovieri italiani alla lotta di Liberazione è stata poco studiata, così come poco conosciuta è stata la tenace attività antifascista che caratterizzò i ferrovieri prima e dopo l’affermazione del fascismo. Il lavoro di Taborri, frutto dell’analisi di fonti documentarie inedite, combinate con interviste ai ferrovieri protagonisti di quel periodo, supplisce a questa carenza storiografica, sia pure limitatamente alla realtà romana, mettendo in evidenza come il contributo dei ferrovieri romani alla lotta di Liberazione fu tutt’altro che marginale. Numerosi furono infatti gli episodi di antifascismo legati ai ferrovieri a Roma e nel Lazio, sia per la quantità di dipendenti FS, visto che a Roma si trovava la Direzione generale, sia per la presenza della linea del fronte, che segnò il confine fra la Repubblica Sociale e il territorio controllato dagli Alleati, fra l’ottobre 1943 e il giugno 1944. La ricerca è anche un omaggio al coraggio e alla coerenza di tanti ferrovieri antifascisti, e soprattutto ai sei ferrovieri morti alle Fosse Ardeatine nel marzo del ’44.
 Il volume è corredato da un inedito elenco biografico dei principali esponenti dell’antifascismo e della Resistenza tra i ferrovieri di Roma,  e da numerose fotografie che testimoniano la drammaticità della guerra a Roma. (l.c.)

G. Mogavero, Un ebanista alle fosse Ardeatine, Massari  2014, pp. 143 €  10,00
L’obbiettivo, scrive l’autore, non è solo quello di far conoscere al pubblico il combattente antifascista Otello Di Peppe D’Alcide che venne ucciso quel 24 marzo 1944 alle fosse Ardeatine, ma anche, e soprattutto, quello di far conoscere che tipo di uomo fosse nella sua quotidianità. Attraverso foto dell’epoca e documenti ritrovati, viene ricostruito il ramo genealogico di Otello. Otello era di professione un ebanista, strettamente legato al partito Comunista. Viene arrestato il primo febbraio 1944 per la sua attività antifascista e il 24 marzo 1944, insieme ad altri 334 civili, viene trasportato alle fosse Ardeatine dove viene ucciso. Ora il suo cadavere si trova nella tomba n. 315 nel sacrario delle Ardeatine insieme alle tombe degli altri civili coinvolti nella drammatica strage. 

G. Oliva, La grande storia della Resistenza, Utet 2018, pp. 527  € 25,00
Negli ultimi anni la Resistenza è stata oggetto di narrazioni e contronarrazioni, non di rado discutibili. Ma se molti ne hanno analizzato la portata etica e politica – e altrettanti, in modi diversi, hanno cercato di contestarla o ridimensionarla – pochissimi hanno avuto il coraggio di fare un passo indietro rispetto alle ideologie, e ripartire da una rigorosa cronistoria dei fatti. Gianni Oliva racconta per intero e senza pregiudizi la storia della Resistenza, offrendo una mappa dettagliata e precisa a chi voglia comprendere le ragioni, il senso e le conseguenze di un’esperienza complessa, fondamentale per capire meglio il Paese in cui viviamo.

P. Rizzi, Non posso lasciarli soli, vado con loro, Il martirio del beato Teresio Olivelli, Effatà 2017, pp. 79  € 7,00
La vita di Teresio Olivelli, medaglia d’oro al valor militare, passa dalla campagna di Russia alla Resistenza, ai campi di concentramento di Fossoli, Bolzano e Flossenbürg dove morì picchiato da un Kapò. Riportiamo la motivazione per l’assegnazione della medaglia d’oro: «Ufficiale di complemento già distintosi al fronte russo, evadeva arditamente da un campo di concentramento dove i tedeschi lo avevano ristretto dopo l’armistizio, perché mantenutosi fedele. Nell’organizzazione partigiana lombarda si faceva vivamente apprezzare per illimitata dedizione e indomito coraggio dimostrati nelle più difficili e pericolose circostanze. Tratto in arresto a Milano e barbaramente interrogato dai tedeschi, manteneva fra le torture esemplare contegno nulla rivelando. Internato a Fossoli tentava la fuga. Veniva trasferito prima a Dachau e poi a Hersbruck. Dopo mesi di inaudite sofferenze trovava ancora, nella sua generosità, la forza di slanciarsi in difesa di un compagno di prigionia bestialmente percosso da un aguzzino. Gli faceva scudo del proprio corpo e moriva sotto i colpi. Nobile esempio di fedeltà, di umanità, di dedizione alla Patria.» Nel 2018 è stato proclamato beato.

V.  Civitella e E.  Landò Gazzolo, Madri di guer-ra, Lettere a Natalia, Internòs 2015, pp. 194 € 15,00 
Le lettere e i documenti qui raccolti sono testimonianze femminili e “al femminile” che, a volte nella loro semplicità stilistica, rievocano fatti di esemplare coraggio e di generoso aiuto prestato sempre a proprio rischio: fatti tenuti nascosti per anni, ma non per questo meno degni ora di essere conosciuti e “fare storia”.

F. Cipriani, Ugo Forno, Il partigiano bambino, Diarkos 2019, pp. 151  € 15,00
Questa è la storia di Ugo Forno, giovane studente romano che il 5 giugno del 1944, mentre Roma festeggiava la liberazione dall’occupazione nazifascista, si mobilitava con altri giovani per impedire a soldati tedeschi di distruggere il ponte sull’Aniene, essenziale per permettere l’avanzata degli Alleati. Egli, di appena dodici anni, assieme ai suoi compagni, predispose l’azione con le armi per impedire che i sabotatori portassero a compimento l’azione. Ciò che più colpisce nell’ultimo giorno di Ugo Forno è la perfetta comprensione dell’importanza e la presa di coscienza del momento storico che stava vivendo, e di cui diventa straordinario protagonista senza un attimo di esitazione. 

C. Ganni, Cara libertà, La Resistenza del partigiano “Gagno”, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia 2019, pp. 158 € 12,00
Il volume raccoglie le memorie di Carlo Ganni “Gagno”, partigiano di Pralungo, combattente, dall’età di soli quindici anni, nella 75a brigata “Garibaldi”. “Sono ormai rare le testimonianze che possiamo raccogliere dalla voce o dalle memorie di chi visse le esperienze della guerra: questo libro ci propone un racconto importante, la storia di un ragazzo che con l’ardore dell’inconsapevolezza dell’età volle vivere da protagonista la guerra partigiana, trascinando nell’avventura anche la madre, una figura degna del più alto rispetto […]”.

A.M. Catano, Il partigiano Franco, Robin 2017, pp. 170 € 12,00
Il libro racconta un episodio della Resistenza lombarda da un punto di vista scomodo, quanto mai autentico. È l’avvincente ricostruzione documentata di un percorso esistenziale – la breve e intensa vita di Franco – che si conclude con un crimine negato. Franco Passarella, cresciuto in una famiglia orgogliosamente antifascista, sale in montagna e raggiunge la Resistenza, scelta che lo oppone ad amici e coe-tanei che numerosi ingrossano le file dell’Rsi. La sua esperienza dura appena una settimana. Scampato a un rastrellamento incappa nella “banda di Solato”, quattro partigiani della Val Camonica che forse scambiandolo per una spia lo fucilano e abbandonano il corpo nel bosco. Il silenzio dei testimoni e l’imbarazzo di uno scandalo hanno finora congelato la ricerca della verità, che solamente a settant’anni di distanza è stata pienamente ristabilita. 

E. Molinelli, Cuori partigiani, La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana, Red Star Press 2019, pp. 244  € 18,00
Il libro racconta le gesta dei calciatori partigiani, Giacomino Losi da Soncino, detto “core de Roma”, l’attaccante Carlo Castellani, bandiera dell’Empoli, il mediano Bruno Neri di Faenza, Armando Frigo, capace di segnare una doppietta con un braccio mezzo ingessato in un memorabile Vicenza-Verona 2 a 0 e poi fucilato dai tedeschi dopo aver eroicamente difeso il passaggio montano di Crkvice, in Jugoslavia, Michele Moretti, comunista e membro del gruppo partigiano che il 28 aprile del 1945 giustiziò Benito Mussolini in nome del popolo italiano. Le storie raccontate con sapiente partecipazione da Edoardo Molinelli danno un contributo speciale alla stessa comprensione della Resistenza come fenomeno di massa. E, finalmente, iscrivono la vita vera dei grandissimi ma spesso misconosciuti protagonisti di questo libro a una sola, grandissima squadra: quella che si riconosce nei colori della giustizia sociale e della libertà.

L. Oates, I. Sproule, Partigiani australiani nel biellese, Una storia vera d’amore e di guerra, Baima-Ronchetti 2017, pp. 206 €15,00 
Questa è la storia del soldato australiano Ian Sproule e di alcuni suoi compagni delle Australian Imperial Forces, dalla cattura nel deserto nord-africano alla prigionia e al lavoro nelle risaie vercellesi, fino alla fuga dopo l’8 settembre 1943. Ian trova l’aiuto insperato e generoso della gente piemontese nei pressi del “Santo Wario” di Graglia, incontra Elda e partecipa alla lotta partigiana. Infine, dopo una marcia estrema di nove giorni attraverso le montagne, raggiunge la Val d’Isère liberata dagli Alleati.

A cura di I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Effigi 2012, pp. 214 € 18,00
La guerra civile spagnola ebbe inizio nel luglio del 1936, quando una parte dell’esercito insorse contro un governo repubblicano di centro-sinistra, costituitosi dopo l’affermazione elettorale di una coalizione di fronte popolare. L’insuccesso del colpo di Stato decretò l’inizio di una lunga e sanguinosa guerra civile che sarebbe durata per quasi tre anni. La guerra si delineò rapidamente come un conflitto dalle caratteristiche spiccatamente internazionali: da un lato si registrò l’immediato sostegno dei fascismi italiano e tedesco agli insorti, mentre dall’altro si andò delineando un movimento, diffuso e transnazionale, di opinione pubblica in favore delle forze repubblicane nel cui seno si sarebbe inserito anche il volontariato internazionale. Furono sufficienti pochi giorni dallo scoppio delle ostilità per trasformare la guerra in uno dei passaggi  centrali di quella guerra civile europea che si era aperta nel 1914 e che si sarebbe conclusa solamente nel 1945. La guerra di Spagna divise, prima ancora che fronti interni e schieramenti internazionali, intere generazioni di uomini e donne per i quali le trincee della Spagna rappresentarono lo spartiacque di un conflitto epocale tra fascismo e antifascismo. La consapevolezza che in Spagna non fosse in gioco soltanto una lotta per la conquista del potere, ma che si affrontavano alternative fondamentali per la sorte dell’umanità, fu altissima. Il volume, frutto di una lunga e accurata stagione di ricerche, si compone di saggi che esplorano il lungo periodo dell’impegno dei volontari toscani, tra militanza antifascista in patria o nell’emigrazione, partecipazione alla guerra e vicende successive, tra campi di concentramento della Francia del Sud e ritorni in Italia. I saggi forniscono un contributo essenziale per la comprensione delle motivazioni che spinsero un numero importante di antifascisti ad affrontare l’esperienza della guerra civile, e delle implicazioni di quell’esperienza, non solo rispetto alle storie personali. Sono allegate al testo le schede biografiche dei volontari antifascisti toscani. Allo stato attuale della ricerca sono state ricostruite 408 storie di vita, estendendo le conoscenze alla fase, che coinvolse un terzo dei volontari, dell’internamento in Francia dopo la Retirada. 408 storie che restituiscono all’area regionale toscana, dopo l’Emilia – Romagna e il Veneto, il primato che le spetta nella graduatoria delle regioni italiane che più contribuirono alla presenza dei volontari in Spagna, in ciò rispecchiando la realtà della lotta politica e sociale che la regione visse dall’avvento del fascismo. (l.c.)

J. Almudéver Mateu, La Repubblica tradita, Memoria di un miliziano e brigatista internazionale alla Guerra di Spagna, ETS 2017, pp. 199 € 15,00
Il volume raccoglie le memorie di uno dei pochissimi protagonisti ancora in vita che hanno attraversato l’epopea della Guerra di Spagna. Quella di Almudéver è stata un’esperienza tra le più complete possibili nel variegato mondo della Spagna antifranchista: miliziano della prima ora, volontario dell’Esercito Repubblicano e delle Brigate Internazionali, incarcerato nelle prigioni franchiste e poi liberato, ha partecipato ad azioni di guerriglia per poi fuggire in Francia, dove tuttora risiede. Queste memorie, redatte nel corso degli anni e fissate in questa versione a metà degli anni Ottanta, ci restituiscono pienamente il clima politico-sociale della Spagna degli anni ’30 del Novecento; sono testimonianza di una persona che ha vissuto direttamente il dramma della guerra, combattendo per la libertà di un intero popolo. I particolari, gli aneddoti, le osservazioni critiche sulla condotta delle operazioni militari da parte dei vertici dell’Esercito Repubblicano, ci trasmettono una verità che è tanto più autentica in quanto è propria di chi ha vissuto quell’esperienza, senza pretese d’imparzialità storica rispetto agli eventi narrati. La vis polemica che traspare dalle pagine del libro è quella di un uomo che si dichiara ancora oggi un combattente che ha lottato tutta la vita per la giustizia e la libertà. Il volume è arricchito da decine di fotografie, alcune che ritraggono Almudéver da giovane con i familiari, altre che testimoniano il suo impegno che da sempre ha avuto per mantenere vivo il ricordo delle Brigate Internazionali. (l.c.)

S. Werther Pechar, Il caso Berneri, Antifascisti italiani nella Spagna rivoluzionaria (1936-1937), Anppia 2017, pp. 268       s.i.p.
Una pubblicazione sul mistero della morte dell’anarchico antifascista grazie alla vasta documentazione raccolta. L’autore collega eventi che sembrerebbero a prima vista tra loro slegati. In tale contesto le morti di Baldassarre Londero, antifascista ambiguo, ucciso perché in possesso di una ingente quantità di oro e di gioielli trafugati dalla capitale spagnola che tentava di esportare all’estero, e di Camillo Berneri, intellettuale anarchico, rappresentano idealmente l’inizio e la fine di ciò che accadde tra il novembre del ’36 e il maggio del ’37. L’autore in possesso di una solida bibliografia e una copiosa quantità di documenti ha potuto esporre i fatti e descrivere gli eventi e i personaggi nella maniera più neutrale possibile.

S. Curtois, D. Pescanski e A. Rayski,  Alle origine dei Gap, Ftp-Moi: gli immigrati comunisti nella Resistenza francese, Red Star Press 2018, pp. 750 € 39,00
A cavallo fra le due guerre mondiali la Francia diventa terra d’immigrazione. Centinaia di migliaia fra italiani, polacchi, spagnoli, rumeni, cechi, slovacchi, bulgari, ungheresi e jugoslavi scelgono il Paese transalpino come rifugio. L’eco della Rivoluzione e della Comune di Parigi, insieme alla tradizione integrazionista della Francia, contribuiscono a favorire l’afflusso, ma ovviamente sono le opportunità di lavoro nelle fabbriche a determinare l’esodo imponente. Il Partito comunista francese decide già sul finire degli anni Venti di organizzare questa massa di diseredati. Crea a questo scopo prima la Moe e poi la Moi, due organizzazioni autonome ma interne al partito che devono organizzare per nazionalità i nuovi venuti. 

L’obiettivo è sindacalizzare gli immigrati, offrire loro sostegno culturale e materiale ma, soprattutto, creare una base di massa per il Pcf, che in quel periodo attraversa una profonda crisi.
Il lavoro minuzioso paga: molti degli immigrati ingrossano le fila del Partito e si organizzano sotto la sua egida. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, questi organismi collaudati forniscono le prime leve alla lotta partigiana. Sono loro i primi a prendere le armi, soprattutto nelle città, dove l’occupazione nazifascista è feroce e la Resistenza fatica a esprimere tutto il suo potenziale. Già nel 1941 arrivano le prime azioni: deragliamenti, espropri e omicidi mirati sono all’ordine del giorno. Una storia dimenticata, ricostruita fra testimonianze dirette e documenti d’archivio, del primo movimento clandestino di resistenza armata composto esclusivamente da immigrati comunisti che per primi, senza attendismi e imboscamenti, si sono gettati in una lotta senza quartiere contro il nazifascismo.

Il cofanetto comprende:
B. Holban, Ai miei compagni. La vera storia della “manodopera immigrata” nella resistenza francese raccontata dal capo militare degli Ftp-Moi di Parigi, pp. 277
St. Courtois, D. Peschanski e A. Rayski, Il sangue dello straniero. Storia degli Ftp-Moi: la “manodopera immigrata” dei partigiani francesi, pp. 395
Centro di documentazione Wacatanca, Ftp-Moi: il ruolo dei comunisti nella resistenza europea. Introduzione a una storia rimossa, pp. 74.

(Ftp-Moi = Francs tireurs et partisans-Main d’oeuvre immigrée)

Razzismo

Il Presente e la Storia, Rivista dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo “D.L. Bianco”, n. 94, dicembre 2018 € 20,00
Ottant’anni fa le Leggi razziali. Atti del Convegno. Cuneo, 3 ottobre 2018. A. Muncinelli: Dai nazionalismi alle leggi antiebraiche nell’Europa del secolo scorso; M. Sarfatti: La persecuzione antiebraica in Italia; F. Germinario: «Ebrei», «giudei», «razza inferiore» e mito dell’«uomo nuovo» deebreizzato nell’universo ideologico antisemita; F. Levi: I non ebrei di fronte alle persecuzioni; G. Garelli: Razzisti per caso? Le nuove forme della discriminazione. 

Minorigiustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n. 2, II trimestre 2018 € 22,50
Segnaliamo il dossier dedicato alle leggi razziali del ’38 con un’intervista di G. De Marco alla senatrice L. Segre e l’articolo Di fronte all’infamia nel diritto di D. Pulitanò.

Memoria e Ricerca, Rivista di storia contemporanea, n. 59, settembre-dicembre 2018 € 28,00
Di questo numero monografico riportiamo l’indice degli articoli.

Antislavismo

Discorsi e pratiche in Italia e nell’Europa sudorientale tra Otto e Novecento. 
T. Catalan, E. Mezzoli: Introduzione; E. Costantini: L’antirussismo nella storia politica e culturale romena. Dalla formazione dello Stato nazionale alla seconda guerra mondiale; B. Mitrović: L’immagine dei serbi e della Serbia nel discorso antislavo italiano fino alla prima guerra mondiale; M. Verginella: L’anti-italianità nello specchio dell’antislavismo; E. Mezzoli: «Di sentimenti ostili». L’internamento come pratica di antislavismo sul fronte del Soča-Isonzo nella prima guerra mondiale; T. Catalan: L’antislavismo a Trieste. Vecchi e nuovi stereotipi nella stampa satirica del Novecento; A. T. Skordos: From «Russian Pan-Slavism» to «Soviet Slavo-Communism». Slavicness as an Enemy Concept in Nineteenth and Twentieth-Century Greece.

A cura di Lunaria, Cronache di ordinario razzismo, Terzo libro bianco sul razzismo in Italia, L̓asino d̓oro 2014, pp. 193 € 24,00 Il testo racconta le discriminazioni e le violenze razziste quotidiane che attraversano i comportamenti sociali, i discorsi della politica, gli interventi delle istituzioni e i messaggi dei media, grazie all̓analisi di duemilacinquecentosessantasei casi di discriminazioni e violenze razziste documentati in un database on-line tra il primo settembre 2011 e il 31 luglio 2014. Casi di razzismo che riguardano tutti gli ambiti della società: perché lo spazio del razzismo quotidiano non ha confini e gli anticorpi culturali, sociali, politici e istituzionali per restringerlo sono ancora del tutto insufficienti e inadeguati.
Il lavoro di Luna­ria si pone que­sto obiet­tivo: il Terzo Libro Bianco, concepito come uno strumento di lavoro, a disposizione di tutte e tutti, vuole contribuire alla (ri)costruzione di una cul­tura dif­fusa dell̓eguaglianza, basata sulla conoscenza, sul confronto, sull̓analisi. Contributi di: P. Andrisani, S. Bontempelli, G. Caldiron, S. Chiodo, D. Consoli, G. Faso, G. Naletto, E. Pugliese, A. Rivera, M. Russo Spena, D. Zola.

Lunaria è un’associazione di promozione sociale senza fini di lucro, laica, indipendente e autonoma dai partiti, fondata nel 1992. 
Promuove la pace, la giustizia sociale ed economica, l’uguaglianza e la garanzia dei diritti di cittadinanza, la democrazia e la partecipazione dal basso, l’inclusione sociale e il dialogo interculturale. Mobilità e volontariato internazionale, politiche giovanili, migrazioni e lotta al razzismo, analisi delle politiche pubbliche di bilancio, economiche e sociali, sviluppo sostenibile, lotta alle disuguaglianze, sono al centro del suo impegno sociale. 
www.lunaria.org email: antirazzismo@lunaria.org, comunicazione@lunaria.org

H. Jaffe, L’apartheid intorno a me, Autobiografia, Jaca Book 2018, pp. 327 € 30,00
“Figlio di immigrati lituani in Sudafrica,  Hosea Jaffe crebbe in una società sopraffatta dal razzismo e vide le gravi ingiustizie perpetrate in nome dell’apartheid. Rimase un anti-razzista per tutta le vita e fu critico delle affermazioni ’eurorazziste’ di Marx ed Engels. Per Jaffe il colonialismo era la fonte, il vero sangue vitale del capitalismo/imperialismo, non un semplice effetto collaterale. La sua autobiografia prende perciò la forma del movimento della sinistra in Sudafrica e non solo.”(cit. dal retrocopertina). Hosea Jaffe (Città del Capo 1921-Benevento 2014), storico ed economista, ha pubblicato molti testi, la gran parte editi in Italia da Jaca Book. L’autobiografia è a cura della moglie Ada Turone e preceduta da un testo di Samir Amin. Conclude il testo, l’Epilogo, curato dalla moglie. (l.b.) 

E. Brunetta, Razzismo e Razzismi, L’antisemitismo nella storia del XX secolo, Editoriale Programma 2019, pp. 135 €   9,00
Il volume si propone di analizzare la genesi delle teorie antisemite, ripercorrendo il retroterra culturale e storico dal quale queste presero le mosse, per poi calarle nella realtà dell’Europa del Novecento, focalizzando l’attenzione in particolare sulla nascita dell’antisemitismo nazista, per poi descrivere compiutamente come il regime nazista e fascista attuarono i loro piani di distruzione e di morte di un intero popolo durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Il libro si avvale di un ricco apparato fotografico che testimonia il dramma che milioni di ebrei hanno dovuto subire, con immagini che ripercorrono l’ascesa del regime nazista in Germania, fino all’attuazione del loro programma di sterminio, con la realizzazione dei campi di concentramento in Germania e in tutti i territori occupati. (l.c.)

S. Cassarino, Nego nel modo più assoluto di essere ebreo, Documenti e riflessioni sull’applicazione delle leggi razziali nella provincia di Ragusa (1938-1943), Sicilia Punto L 2018, pp. 143  € 10,00
La campagna razzista perseguita contro citta-dini di origine ebraica nella provincia ragusana, una pagina misconosciuta e poco onorevole, è uno dei tasselli di quella storia del Novecento incrostata dagli escrementi di una stagione maledetta, vergognosa e buia sulla quale gli italiani non hanno fatto ancora la necessaria autocritica, né lasciato che la luce della verità la illumini completamente, senza remore, né sconti. La documentazione pubblicata in questo volume non vuole dimostrare nulla più di quanto essa già non testimoni e sia rilevabile dalla sua semplice lettura. Nel diffondere questa pagina iblea, disperante e assurda, si spera di riuscire a contribuire a suscitare quella indignazione e quella vergogna necessarie a scrivere un nuovo capitolo della storia dal quale dittature, populismi e razzismi vengano banditi e diventino solo un triste monito per l’Umanità, quello stesso che avrebbe già dovuto essere operante dalla fine della seconda guerra mondiale e spingere verso orizzonti di pace, integrazione, collaborazione e contaminazione tra i popoli di questo pianeta che, a ben guardarlo, è solo un puntino sperduto nelle galassie.

K. Wolbert, Scultura programmatica nel terzo Reich, Corpi dogmatici, letali dettami di bellezza, Allemandi 2018, pp. 407     €150,00
Negli edifici pubblici di rappresentanza, in cui la Nsdap – il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori – volle mettere in scena con imponente grandiosità la sua potenza, alla scultura era riservato un ruolo di grande rilievo accanto all’architettura. Le opere degli scultori del Terzo Reich erano opere strettamente legate ai dettami razzisti dello Stato nazionalsocialista, presentate e osannate come esempi riusciti di affermazione dell’identità e della superiorità dei «tipi ariani». 

In questo volume Klaus Wolbert sottolinea la centralità del nudo nelle sculture del nazionalsocialismo, in un Terzo Reich in cui il primato della «bellezza» aveva anche lo scopo di far apparire lo Stato nazionalsocialista come tutore del «bello» e garante supremo di un ordine armonioso.  La bellezza di imitazione «classica», tuttavia, nel pensiero programmatico degli ideologi dell’era hitleriana e nei nudi realizzati dagli scultori allineati con il regime, assunse anche una connotazione tragica: essa aprì la via, infatti, alla selezione e al declassamento dei corpi che non apparivano adeguati ai canoni «estetici» elaborati nei programmi ufficiali, squalificando così tutti gli individui che non risultassero sufficientemente «belli». Stigmatizzati come appartenenti a una «razza impura» o «inferiore», ad essi si aggiunsero i «disabili» fisici e mentali, gli «anormali» sul piano sessuale, i socialmente «miserabili». Su tutti costoro si abbatté l’ostilità integrale dei nazionalsocialisti: screditati quali esseri «spregevoli» e «ripugnanti» e infine considerati «indegni di vivere», furono internati in gran numero per essere destinati alla morte. Valendosi di un’ottica interdisciplinare, Wolbert scandaglia in modo approfondito le premesse concettuali cui poterono agganciarsi i nazionalsocialisti nella elaborazione delle loro linee programmatiche, si interroga su come interpretare la funzionalità politica connessa al potere attrattivo dei nudi nell’arte plastica nazionalsocialista e documenta in che misura anche gli scultori dell’era hitleriana fossero implicati, con le loro opere, in quell’immane annientamento di corpi che culminò negli abomini perpetrati dai nazisti.

M.T. Milicia, Lombroso e il brigante, Storia di un cranio conteso, Salerno 2014, pp. 165 € 12,00 
In una grigia mattina di dicembre del 1870 Cesare Lombroso esaminò il cranio di Giuseppe Villella, originario di Motta Santa Lucia in Calabria e morto a Pavia, dove era detenuto. Il giovane scienziato si convinse di aver fatto una scoperta sensazionale: nacque cosí l’antropologia criminale, destinata a riscuotere un enorme e controverso successo internazionale.  Ladro o brigante, per un secolo e mezzo Villella non fu che un reperto scientifico, il «totem dell’antropologia criminale». Nel 2009, l’inaugurazione del nuovo allestimento del Museo «Cesare Lombroso» di Torino, ha provocato la sorprendente resurrezione mediatica del brigante. Oggi è un personaggio mitico, il totem della lotta contro il razzismo antimeridionale, simbolo del riscatto delle popolazioni native del regno delle Due Sicilie. L’antropologa nativa Maria Teresa Milicia ricostruisce la scarna esistenza del “brigante” su solide basi documentali e propone un’inedita analisi del razzismo attribuito a Lombroso.

(dalla presentazione del volume)

Scienza

 

S. Weil e A. Weil, L’arte della matematica, Adelphi 2018, pp. 185 € 14,00
«Visto che di tempo ne hai anche troppo», scrive all’inizio di febbraio 1940 Simone Weil all’amatissimo fratello maggiore, detenuto nel carcere civile di Le Havre per renitenza alla leva (André riteneva suo dovere «fare il matematico e non la guerra») «un’altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l’interesse e la portata dei tuoi lavori»; e una decina di giorni dopo insiste: «Cosa ti costerebbe tentare? Ne sarei entusiasta». André, che a caldo le aveva risposto: «Tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi», di fronte alle questioni che lei continua a proporre finisce per cedere. Comincia così uno scambio che è un concentrato di passione intellettuale e affetto – e li induce anche a scontrarsi su punti capitali, come la scoperta degli incommensurabili e il carattere della scienza greca. E i due fratelli sono ugualmente capaci di parlare di Pitagora e dell’Odissea, di cardinali, abili nelle strategie di corte e dell’importanza del sanscrito, di Dedekind e di Gauss… (dalla quarta di copertina)

F. Sauvageot,  Viva la matematica. 4 lezioni per capire il mondo, Corbaccio 2019, pp. 127 € 15,00 
Questo libro propone una versione «viva» della matematica con parole semplici e quasi senza formalismi. Il libro è diviso in quattro capitoli che possone essere letti indipendentemente l’uno dall’altro, il primo parla del concctto di probabilità che lungi dall’applicarsi ai soli giochi d’azzardo, permettono di intuire meglio problemi complessi come l’attribuzione di borse di studio o l’uso dei testi del Dna nelle indagini giudiziarie, il secondo parla dei numeri, la costruzione dei numeri, dai naturali a quelli complessi, nel terzo dell’algebra trascendente, cioè  dello studio dei fenomeni infinitesimali o di quelli che esulano dal campo algebrico. L’ultimo capitolo affronta i problemi che possono nascere dalle scelte nei processi decisionali in economia e in politica. Con poche formule, tanti casi concreti e qualche biografia eccellente, Sauvageot (ri)avvicina i lettori a una materia affascinante.

E. Perozzi,  Luna nuova, Tra mito e scienza dalle eclissi alle basi lunari, Il Mulino 2019, pp. 140 € 14,00
Il volume acconta la Luna attraverso le esperienze personali del suo autore, responsabile dell’ufficio per la sorveglianza spaziale dell’Asi. Una lettura che scorre veloce, tra riferimenti letterari e cinematografici, false credenze popolari, esplorazione spaziale e la meccanica celeste a essa necessaria. Un’attrazione, ostinata e irresistibile, lega la Terra e la Luna. I movimenti e le configurazioni lunari hanno fatto impazzire gli astronomi e affascinato la gente comune di tutti i tempi, suscitando un culto che ha accompagnato il cammino della nostra civiltà. A cinquant’anni dall’Apollo 11 e con la Nasa che vuole riportare gli astronauti a camminare sulla Luna, Perozzi si interroga su nuove missioni lunari con equipaggio e riflette sulla possibilità e sulla utilità della costruzione di una base lunare illustrando tutta la complessità della missione descrivendo in maniera lineare e comprensibile le particolarità dei moti lunari e le insidie dell’allunaggio.

B. Mazzolai, La natura geniale. Come e perché le piante cambieranno (e salveranno) il pianeta, Longanesi 2019, pp. 190 € 18,00
Quando pensiamo ai robot, mentalmente ci figuriamo quelli che hanno rivoluzionato il lavoro nelle fabbriche, ad es. automobilistiche. Questo libro, invece, parla di robot piccoli, però perfettamente ambientati, sia che popolino le nostre case (aspirapolveri,  tagliaerba ecc) sia  che esplorino – come Curiosity della Nasa – gli ambienti  di Marte, inviandoci splendide immagini di quel pianeta o i misteriosi abissi oceanici qui, sulla Terra. Come emanazione tecnologica dell’uomo, arrivano dove noi non possiamo e ci permettono di scoprire, conoscere, comprendere contesti attualmente fuori della nostra portata. Via via che la sperimentazione progredisce, si avverte il bisogno di una “nuova” robotica, capace di operare in ambienti mutevoli, non strutturati e quindi meno prevedibili. Con  questo obiettivo, gli scienziati – come l’autrice – originariamente biologa e attualmente direttrice del Centro di Micro-Biorobotica dell’Istituto Italiano di tecnologia di Pontedera – guardano al mondo della Natura con rinnovato interesse, perché gli esseri viventi, tutti, animali, piante e batteri sono costituzionalmente capaci di adattamento a contesti in evoluzione. Questa nuova robotica, nota come bioispirata o biomimetica, ha le sue basi nella biologia, nella chimica e nella fisica. È una nuova area scientifico-tecnologica, caratterizzata da profondi connotati interdisciplinari e può essere intesa e studiata in due diverse prospettive: 

1) per generare nuove scoperte e, quindi,  nuova conoscenza; 2) per inventare e generare nuova tecnologia.  In questo mondo, ancora poco conosciuto, la scienziata ci introduce attraverso le pagine del suo libro in un’appassionante esplorazione della Natura, tra bizzarri animali, piante dalle capacità misteriose, enigmi naturali che ancora oggi arrovellano gli scienziati. Per chi, poi, non conoscesse i libri sulle piante dello scienziato Stefano Mancuso (con cui Barbara Mazzolai ha progettato il primo plantoide), questo libro è l’occasione per recuperare il tempo perduto e aprirsi con meraviglia al mondo vegetale che – dagli studi pionieristici di Darwin in poi – sta rivelando la sua incommensurabile poliedricità.  Se volete acquisire uno sguardo inaspettatamente nuovo sul mondo vegetale, questo volume e gli altri – in bibliografia – vi aspettano. In chiusura, la bibliografia specialistica è seguita da  “Consigli di lettura”, che coniugano scienza e divulgazione; con l’indicazione della home page, curata da Mazzolai e dal suo team, in cui possono essere visionati brevi video sui loro robot in azione. (http://bsr.iit.it).  (l.b.)

G. Giorgio, Cyborg: il volto dell’uomo futuro, Il postumano fra natura e cultura, Cittadella 2017, pp. 76 € 10,50
Il volume affronta la questione del postumano a partire dall’icona culturale del cyborg, e sviluppa i due fondamentali orientamenti della riflessione attuale.  Il primo prende le mosse a partire dai limiti dell’umano rispetto alla perfezione della macchina. In questo caso la tecnica supplisce alla difettosità dell’umano che, compreso sub specie machinae, deve essere migliorato e anche superato. Il secondo prende le mosse a partire dalle possibilità evolutive dell’umano. In questo caso la tecnica interagisce con l’umano, e lo spinge ad evolversi verso inedite forme più complesse.

E. Boncinelli,  Vedere il mondo. Cinque lezioni su scienza e fotografia, Contrasto 2019, pp. 140 € 22,00
Pur non essendoci alcun rapporto diretto tra scienza e fotografia, se non che si sono sviluppate pressoché insieme,  la fotografia è diventata uno strumento indispensabile per la scienza, per come la intendiamo oggi,  fatta di parole, ma anche di dati e immagini. Per quanto possa sembrare paradossale – se confrontata con gli esiti attuali – all’inizio l’uso primo della fotografia è stato quello di restituirci i ritratti individuali e collettivi di scienziati tra ’800 e il ’900, che altrimenti non ci sarebbero pervenuti. Ma questo era solo l’inizio. “Se vogliamo – come recita la copertina – possiamo dire che la scienza da una parte  e la fotografia dall’altra costruiscono o inventano il mondo”.  Come quando la fotografia  (raggi x)  ha reso visibile l’invisibile  o,  attraverso dispositivi particolari (la camera di Wilson e la camera a bolle),  rendendo fotografabile il percorso delle particelle,  ci ha   permesso di “vederle” quando di esse si ignorava perfino l’esistenza (vedi il caso del positrone, oggetto fisico previsto dalla matematica e dalla fisica teorica, ma osservato solo grazie alla camera di Wilson, una forma di fotografia). Senza il microscopio e senza i telescopi uniti alla fotografia, la nostra visione del mondo dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande non esisterebbe proprio. Ancora, come ai tempi di Aristotele, crederemmo che, mentre l’uomo dà un contributo fattivo alla procreazione, il ventre della donna è un contenitore passivo della vita che ospita. Infatti, senza il microscopio l’ovulo femminile non si vede in nessuna specie. È la scoperta del microscopio e della fotografia che ha permesso di verificare che la donna contribuisce al cosiddetto patrimonio genetico dei figli. Gli uomini hanno sempre guardato e speculato sulla volta celeste che ci è diventata sempre più familiare con l’invenzione del cannocchiale e poi dei diversi tipi di telescopio. 

La grande sfida verso l’osservazione dell’Universo si è avuta quando Einstein è passato dalla teoria della Relatività ristretta alla Relatività generale che ci ha rivelato molto sul modo su cui i corpi celesti si muovono. Einstein ebbe l’intuizione di spostare il centro della spiegazione dalla forza alla geometria e allo spazio-tempo. La Terra non è attratta dal sole  tramite una forza. 

Siccome lo spazio-tempo è curvo,  soprattutto in vicinanza dei corpi celesti di una certa massa,  la Terra – gioco forza – ruota attorno al sole, come la Luna attorno allaTerra.  Questa spiegazione era così ardita che, per essere sostanzialmente basata su argomenti speculativi, ebbe bisogno di conferme. La tesi di Einstein ebbe la sua prima dimostrazione nel 1919, quando nel corso di un’eclisse solare, Eddington accertò – fotografando il fenomeno – che la luce, in prossimità del sole, defletteva. Se lo spazio-tempo è curvo, anche la luce come la materia deve incurvarsi in vicinanza di un corpo celeste. È attraverso la fotografia che si è avuta la prima conferma della teoria della Relatività generale, come attraverso altre acquisizioni simili si è pervenuti alla consapevolezza che i corpi celesti devono essere osservati attraverso un obiettivo fotografico montato su telescopi azionati da potenti meccanismi che permettano loro di muoversi in sintonia con i corpi celesti. Da allora di strada ne è stata fatta, sia nell’infinitamente piccolo che nell’infinitamente grande. Per rendersene conto, niente di meglio che  leggere  e godere con gli occhi tutto ciò che – con dovizia  di particolari – il libro di  Boncinelli ci regala e in immagini e in notazioni sapienti che hanno il pregio raro di coniugare chiarezza e bellezza, concettuale e visiva. Di fortissimo impatto,  nel buio dell’Universo, la Terra e la Luna fotografate dalla navicella Cassini, il 19 luglio del 2013; di fortissimo impatto, vederci da fuori – irriconoscibili – e rea-lizzare che noi siamo quella fragile vicinanza di due punti luminosi persi nel nulla. (l.b.)

Sessantotto e Settantasette

Una città, n. 249, maggio 2018 €   8,00
Nell’intervista A tutto il mondo libero, a cura di B. Foa e B. Bertoncin, G. Crainz parla del Sessantotto in Polonia, Jugoslavia e Cecoslovacchia. Tra i vari argomenti: l’insensibilità della sinistra italiana verso i giovani di quei Paesi dell’Est (l’Unità pubblicò l’accusa del regime polacco secondo cui era in atto un complotto sionista), la nascita del gruppo di Visegrad nel 1991, la mobilitazione per Jan Palach fatta soprattutto dalla destra, gli arresti, i 500.000 lavoratori in Cecoslovacchia costretti a lasciare il loro impiego, il ruolo della Chiesa.

Una città, n. 256, marzo-aprile 2019 €   8,00
Due le interviste che il mensile dedica al Sessantotto. Una è quella a cura di F. Melandri e G. Saporetti a P. Adamo, docente di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Torino, Il 68 americano. La seconda, La felicità pubblica, a cura di G. Saporetti, è a E. Lamedica, autrice di Dal fondamento alla fondazione. Hannah Arendt e la libertà degli antichi, Mimesis 2016 e riguarda il giudizio della Arendt sul movimento americano, positivo riguardo alla riscoperta della politica, della comunità, della partecipazione e critico verso l’avvicinamento ai pensatori di tradizione marxista e l’entusiasmo per i comunismi o i movimenti rivoluzionari del Terzo mondo.

Una città, n. 257, maggio 2019 €   8,00
Nell’intervista a cura di B. Bertoncin dal titolo Sfiancheremo il ronzino della storia viene ricordato Karol Modzelewski. Storico del Medioevo, uno dei riferimenti della rivolta studentesca polacca del ’68, colui che ha dato il nome a Solidarnosc, incarcerato per aver scritto – insieme a Jacek Kuron – una “lettera aperta” al Partito comunista polacco. Eletto senatore nel 1989 si è allontanato in disaccordo col programma economico del governo rimanendo figura autorevole per la sinistra polacca.

Italia contemporanea, n. 290, agosto 2019  € 37,00
In Il Sessantotto studentesco di Perugia e il Sessantotto “operaio” di Terni tra storia e memoria, Valerio Marinelli, dell’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, fonde nel suo saggio fonti orali (interviste da lui condotte), archivistiche e secondarie per ricostruire la storia del movimento in una regione “dominata” dalla sinistra tradizionale e fare luce su come essa venga ricordata a distanza di cinquant’anni, attraverso le varianti di Perugia e Terni.

N. Simeone, 1968 la rivolta necessaria, Controstoria dei movimenti giovanili in Italia: quando nascono, come si organizzano, perché sono destinati a svolgere un ruolo decisivo sulla scena del conflitto sociale, Red Star Press 2018, pp. 167 € 15,00 Mezzo secolo fa, nel 1968, una situazione per certi versi simile a quella di oggi riguardante il disagio economico e precario dei giovani, innescò una ribellione senza precedenti, capace di saldarsi con le mobilitazioni operaie nel corso dell’Autunno Caldo e cambiando per sempre, sulla scia di quanto accadeva a livello globale, la società che conosciamo. Ritornando sulla scena di quegli avvenimenti, Nando Simeone scrive una storia inedita dei movimenti studenteschi e giovanili: il 1968, il 1977, ma anche i ragazzi con le magliette a strisce del luglio 1960, i beat e gli hippy dell’area controculturale, i movimenti femministi e, quindi, la Pantera del 1990 e l’Onda Anomala del 2008, senza dimenticare le lotte contro la precarietà in Francia, le primavere arabe o, più indietro nel tempo, i fatti della Comune di Pechino e di piazza Tienanmen. Tutti insieme, questi movimenti, consegnano al presente un patrimonio di teorie e pratiche dell’autorganizzazione, ma anche un tesoro di esperienze potenzialmente capace di saldare ciò che i giovani e gli studenti rappresentano per eccellenza: un blocco sociale degli esclusi che, in vista di un nuovo ’68, avrebbe da perdere soltanto le sue catene. 

C. Ingrao, Dita di dama, La nave di Teseo 2019, pp. 311 € 12,00  
Le grandi lotte operaie e sindacali del 1969 furono decisive perché da allora il nostro Paese cambiò radicalmente. Nulla fu più come prima. Nelle fabbriche, tra i lavoratori e le lavoratrici si afferma una consapevolezza nuova, un’appartenenza e una coscienza di classe. Il libro di Chiara Ingrao ricostruisce questa storia collettiva. Lo fa con intelligenza e passione. Nel libro, infatti, si intrecciano l’intensità dei sentimenti e delle relazioni personali con una narrazione collettiva che ha al suo centro la realtà della fabbrica e le condizioni di vita concreta delle donne e degli uomini che lì dentro lavorano. Si getta lo sguardo attento alla vita materiale delle persone, ai loro bisogni concreti e alla loro umanità profonda. Si ricostruisce quel legame fra “io” e “noi” oggi profondamente inquinato della narrazione malata del “noi contro loro” che semina odio verso i più deboli e impotenza contro le vere ingiustizie. (dalla postfazione di Maurizio Landini)

E. Boffano, S. Tropea e M. Vallinotto, Torino ’69, Laterza 2019, pp. 231 €  24,00
Torino, autunno 1969. Sono trascorsi 50 anni ma sembra passata un’era geologica. A guardare le meravigliose fotografie di Mauro Vallinotto ci pare di osservare il paesaggio di un altro pianeta. Tram e biciclette, case fatiscenti, valigie legate con lo spago, masse di uomini e donne che sfilano insieme in corteo, il lavoro fatto di sudore, fatica, sporco. Sono foto che ci parlano ancora. Forse perché in quei volti spossati, stanchi, logori, rivediamo i nostri padri e le nostre madri. Forse perché in quelle stanze misere, in quegli sgomberi forzati degli immigrati meridionali a Torino rivediamo la stessa condizione di chi arriva oggi da altri Paesi. Forse perché ci ricordano un tempo scandito da ideali e da vivide speranze cui ora guardiamo con nostalgia. Come trasportati dalla macchina del tempo, torniamo all’autunno caldo in cui tutto è cominciato. Perché se il ’68 è stato un movimento elitario, di studenti e professori, nel 1969 a muoversi è l’intera società. A farne la cronaca sono due importanti giornalisti come Ettore Boffano e Salvatore Tropea, testimoni di quella stagione.

P. Maltese, Volevo essere orfano. Il sessantotto raccontato da chi l’ha vissuto. Villaggio Maori 2018, pp.139 € 15,00
È un libro che si presenta bene fin dal titolo: “Volevo essere orfano”, uno dei molti iconici slogan del ’68 italiano (e non),  ripreso dal volume di Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, e citato in Storia d’Italia di P. Ginsborg che, riferendosi al ’68, scrive: «Per la prima volta nella storia della Repubblica, la famiglia fu messa sotto accusa per i difetti  e i lati oscuri dei moderni rapporti familiari».  Tutto ciò  nell’introduzione dell’autrice che,  senza pretendere di fare una ricostruzione storica del ’68, dialoga con protagonisti  che lo hanno vissuto e interpretato, cercando di rendere l’aria che si respirava allora. Per questo  ha intervistato – sia donne che uomini – dirigenti politici, militanti, operatori nel campo musicale e del cinema, ciascuno  dei quali ha raccontato le piccole e grandi battaglie vissute, l’impegno politico, ma anche le proprie emozioni,  gli “scazzi” con la famiglia e i rapporti interpersonali. Ognuno racconta il proprio ’68. Una polifonia di voci e di vissuti che però si ritrovano su delle costanti che connotano il ’68  di tutti: l’antiautoritarismo, l’internazionalismo, il forte impatto di svecchiamento sulla società italiana e i relativi lasciti nel costume e nei diritti. Tra gli intervistati: M. Boato,  R. Catanzaro,  L. Menapace, T. d’Amico,  E. Finardi,  L. Rotondo,  E. Moroli.  Concludono il testo un’essenziale bibliografia e sitografia.

A. Dadà T. Tozzi,  Noi eravamo il cambiamento. L’Accademia di belle arti di Firenze e il ’68. Con la testimonianza di L. Contemori, A. Granchi e E. Malagigi. Centro Studi Politici e Sociali, Accademia di belle arti di Firenze 2019, pp. 96 s.i.p.
Dal 30/1/2018 viene reso fruibile una parte del materiale sul ’68 elaborato in ben due anni accademici dagli studenti (i cui nomi sono riportati nella pubblicazione) coadiuvati – per la parte storica – dalla professoressa Adriana Daddà e dal prof. Tommaso Tozzi per le nuove tecniche della comunicazione. Non per niente i risultati di questa ricerca sono fruibili anche consultando la piattaforma EduEDA. http:// edueda. Net/68/index.php? title=i_luoghi del 68 Firenze e http:// www.edueda, net/68/video/ Accademia68lungo.mp4:  per il video di 25 minuti intitolato Noi eravamo il cambiamento. L’occasione è la ricorrenza del 50esimo della manifestazione degli studenti il 30/1/1968, duramente repressa. Tale fatto indusse un salto di qualità nel movimento studentesco non solo dell’Accademia. Infatti, il giorno seguente tutte le facoltà a Firenze erano occupate e il rettore, l’illustre italianista Giacomo Devoto, si dimise come forma di protesta per non essere stato ricevuto dal questore. Il volume si apre con l’intervista a più voci, intitolata Noi eravamo il cambiamento a cura di L. Contemori, A. Granchi, E. Malagigi,  a quel tempo studenti. Nell’alluvione del 4/11/1966 tutti individuano la cesura tra Firenze com’era e ciò che divenne, quando, da tutte le parti d’Italia e del mondo, vi confluirono i cosiddetti Angeli del fango.  La stessa cesura riguardò anche l’Accademia che, alla riapertura graduale dei locali (tutte le aule a pianoterra erano state alluvionate), nella primavera del ’67 fu chiaro che non sarebbe più stata la stessa. Finiva un’epoca e il nascente movimento degli studenti stava per diventare il portavoce di tutte le insufficienze di una scuola nozionistica, ingessata in discipline non dialoganti tra loro; mentre i docenti – per lo più artisti, i più di pregio – occupati a seguire le loro mostre nel mondo, chi più chi meno, si disinteressavano della didattica, demandando tutto agli assistenti. Una scuola sempre più asfittica davanti ad un’utenza sempre più estesa. L’intervista è seguita dalla biografie e da un’antologia delle opere dei tre autori, allora esordienti. Tra le illustrazioni di Lido Contemori, alcuni suoi contributi sul mensile satirico «Ca’ Balà» e la copertina di un «Notiziario»: entrambe  pubblicazioni del Centro Documentazione di Pistoia di allora. (l.b.)

L. Pollini, Ordine compagni! Storie, cronache e leggende dei servizi d’ordine, Morellini 2018, pp. 133 € 14,90 
Grandi movimenti di giovani, che si mobilitavano in quanto giovani e in quanto studenti, scuotevano le piazze d’Italia alla fine degli anni ’60. Il Paese li temeva. Già erano nati scandali come quello del giornalino del liceo Parini di Milano, già c’era stata l’aggressione poliziesca che dette il via ai fatti di Valle Giulia a Roma e quell’Italia in bianco e nero, che stava vivendo il suo primo boom economico, che smetteva di patire la fame, che cominciava a viaggiare motorizzata a suon di cambiali. Il Paese non li capiva e quel che non si capisce spesso fa paura. Di lì a poco, parte la protesta operaia e c’è il salto di qualità di grandi masse che chiedono un paese più giusto, più democratico, ma anche tanti che chiedono, semplicemente, la rivoluzione. Scattano le minacce come quella del golpe (con la Grecia dei colonnelli a due passi e sicuro santuario dei fascisti italiani), scatta la repressione, scatta la risposta stragista dello Stato con la bomba di Piazza Fontana. Quei giovani che con passione hanno speso il loro tempo a sperimentare i tentativi di cambiamento del Paese, capiscono che c’è qualcosa che non va. E cominciano ad attrezzarsi, ad organizzarsi, per difendere gli spazi conquistati ma anche la democrazia e la libertà in questo Paese. Nascono così i servizi d’ordine, con l’idea del sacrosanto diritto di difendersi attivamente. Niente di nuovo a pensarci bene. Bastava guardare il Pci, che ne ha sempre avuto uno (su più livelli) fin dagli anni ’50 e rifarlo per difendere i cortei (o il proprio spezzone di corteo dall’attacco di altre organizzazioni di “compagni”: sono memorabili gli scontri a Milano tra i katanga del MS milanese e Avanguardia Operaia e Lotta Comunista, quest’ultima distrutta semplicemente sul piano fisico e cancellata poi per lunghi anni dal panorama politico milanese) o le proprie sedi da assalti degli squadristi neri o per difendere le case occupate dagli sgomberi (1974, Roma, quartiere di san Basilio, Fabrizio Ceruso morto per difendere una casa occupata). Nasce in breve tempo anche una triste fama dovuta a pratiche dell’antifascismo militante e vere e proprie leggende metropolitane su metodi e strumenti di selezione. E con il passare del tempo nasce una vera e propria separazione politica di queste strutture, che sempre più spesso si scontrano con gli stessi gruppi dirigenti del proprio partitino e partecipano (anche troppo attivamente) a defenestramenti politici (sempre a Milano, l’espulsione di Capanna e altri dal MS milanese – autunno 1973 –  fu accompagnata da calci, sputi e qualcos’altro ad opera di un gruppo ben preciso del servizio d’ordine). Ma fu una esperienza condivisa da migliaia di giovani, poi dispersi “ognuno a rincorrere i suoi guai”. Migliaia di mani che hanno tenuto in mano uno “stalin” o un tondino, che hanno rischiato la pelle nel farsi rincorrere da camion e gipponi, che hanno imparato il senso di partecipazione stando su una barricata. Questo lavoro parla di loro. O meglio parla quasi esclusivamente dell’esperienza milanese. Scrive anche sciocchezze e inesattezze, a proposito dell’arrivo di armi da fuoco o come sono nati gli scontri del maggio 1977 che portarono alla morte dell’agente Custrà: Andrea Bellini ha sempre smentito quella versione, sia in forma scritta sia oralmente. È una sciocchezza da cui – purtroppo – non può più difendersi. E, forse, su quelle strutture, o ci facciamo ricerche con approccio storico o  si rischia di riaprire ferite mai del tutto chiuse.  (i.b.)

C. Corini, La battaglia della Salamini. Operai in trincea, stampato in proprio 2019, pp. 111 € 10,00
Anni ’60, dal sud al nord emigrano in tanti con il sogno di uno stipendio in fabbrica, una vita meno grama e la possibilità di partecipare al boom economico. Ma c’erano anche tanti mezzadri e coloni delle campagne del centro nord che emigravano con questi sogni in tasca e non facevano 1000 chilometri; semplicemente andavano verso il più vicino capoluogo di provincia. Così nasce lo sviluppo industriale di tanta Italia del nord e Parma non faceva eccezione. Con fabbriche che grazie a finanziamenti vari e a una congiuntura favorevole aumentavano in pochissimi anni la propria capacità produttiva e la propria fame di mano d’opera. Tra le tante, c’è la Salamini, grande fabbrica di elettrodomestici che, seguendo alcune spericolate evoluzioni del suo padrone, prende la china del fallimento e lascia oltre 1000 operai in strada. Da quella lotta nasce il 1969 operaio parmense che lega le rivendicazioni di salvaguardia del posto di lavoro alle manifestazioni studentesche. E ci sono momenti alti di lotta: più volte vengono occupati i binari della ferrovia, si occupa il Duomo e si tenta di bloccare il giro d’Italia (ma quando passano i corridori della Salamini scatta l’orgoglio di sigla) e il consiglio comunale. Sarà una lotta dura e lunga ma, alla fine, la Salamini (scappato in Spagna il patron accusato di bancarotta fraudolenta), non riaprirà più. Il libro è ben documentato con testimonianze, foto e documenti dell’epoca, dove si ricostruisce il clima di quella metamorfosi sociale che ancora poteva recuperare in altri luoghi, i posti di lavoro persi. (i.b.)

G. Sacchetti, Pugni chiusi, Aska 2018, pp. 367 € 20,00  
Una ricostruzione e un bilancio di quanto successe cinquant’anni fa non solo ad Arezzo e dintorni: il ’68 studentesco non solo di Parigi ma anche di Pisa, il dissenso del mondo cattolico, la rabbia operaia per la presa di coscienza di aver pagato il boom economico per tutti, arrivò anche ad Arezzo e nelle sue valli. Per raccontare il ’68 della periferica-ma-mica-tanto Arezzo, viene ricalcato il modello del lungo ’68 italiano. Infatti, si comincia a descrivere i primi movimenti del 1966-67, si arriva al ’68 e si finisce nel 1977. Ma si adotta il metodo della ricerca e del lavoro collettivo, a più mani. In fondo si racconta una stagione della propria vita che coincide con un tempo rivoluzionario «che ha sovvertito in maniera profonda tutto il sistema di valori esistente, l’idea stessa di potere costituito, i modi di concepire il corpo, il sesso, i rapporti tra sessi, la famiglia, i linguaggi, i consumi, perfino i dress code», scrive Sacchetti. Metodo, che potremmo dire, era della rivolta studentesca di quegli anni: un’analisi che parte dal basso e si fonda sul confronto e la condivisione di esperienze. Tant’è che il libro inizia con la Prefazione, scritta da Claudia e Silvia Pinelli, che si avvia con l’affermazione «C’è stato un tempo in cui il Noi è stato più importante dell’Io» e finisce con la testimonianza di Marco Noferi: «Poi quegli anni passarono, finì il “noi” e arrivò il ’77 anche in Valdarno, con le sue paure, il suo “io”, il sesso affrettato, le fughe, la fragilità». Molti dei protagonisti di allora, non solo di Arezzo ma anche e forse soprattutto del Valdarno, raccontano la loro storia – con ben 10 testimonianze dirette – ma anche quella di alcuni che non ci sono più. Nella sua Introduzione Paolo Brogi traccia quelle che per lui sono le coordinate del libro: da un lato la psichiatria e l’antipsichiatria e dall’altro le lotte operaie e l’internazionalismo contro ogni forma di totalitarismo. Scrive Brogi: «Il ’68 infatti è stato forse prima di tutto questo, la potente voglia di aprire porte chiuse da sempre e di occuparsi fraternamente degli altri cercando di superare le strettoie barbariche della società in cui ci trovavamo a crescere. Una di queste tante porte era quella dei manicomi. Arezzo è stata in quegli anni una grande capitale del pensiero moderno. Dunque chi è periferia di chi?» Negli anni Settanta l’azione del professor Pirella, direttore dell’ospedale neuropsichiatrico di Arezzo, come quella di Franco Basaglia a Gorizia del quale era stato collaboratore, trasformò l’approccio alla malattia mentale da curare nell’ambito delle relazioni umane e sociali senza violenza e senza emarginazione, una rivoluzione coronata con la chiusura del manicomio di Arezzo grazie alla legge 180/1978, «certamente uno dei frutti maggiori del ’68» chiosa Brogi. Un’altra porta che il Sessantotto spalancò fu quella dell’antimperialismo: iniziò contro gli USA con l’opposizione alla guerra in Vietnam e si completò contro l’URSS con l’opposizione alla prepotenza sovietica in Cecoslovacchia nel 1968. Anche a Montevarchi nel Valdarno si bruciò la bandiera rossa con la falce e il martello dell’Unione Sovietica «di fronte ad un allibito gruppo di comunisti doc», racconta Giovanni Cardinali. Ovunque, la “chiesa” Pci si divise tra obbedienti e dissidenti. Quanto tutto fosse cambiato con il ’68, lo dimostrano gli ordini del giorno del Consiglio comunale di Sansepolcro del 23 novembre 1956 e del 4 ottobre 1968 a seguito dell’invasione delle truppe del Patto di Varsavia rispettivamente dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, votati a maggioranza dal Pci che guidava l’amministrazione comunale: nel 1956 auspica l’intervento dell’Onu per ristabilire la pace, mentre nel 1968 condanna l’invasione sostenendo il processo di rinnovamento socialista di Alexander Dubcek e chiedendo il ritiro dei carri armati dalla Cecoslovacchia così come l’esercito imperialista degli USA dal Vietnam. Poco tempo dopo, ci racconta Sacchetti, l’avvocato Mario Ugolini, ex sindaco comunista di Sansepolcro che approva l’invasione sovietica, lascia il Pci. «C’è allora un Sessantotto – scrive Sacchetti – che parte da molto lontano e che ha i suoi prodromi negli epocali sconvolgimenti che si registrano, sui versanti sociopolitico e culturale, già dal decennio precedente. È così che nascono e si consolidano vaste aree di dissidenza: a sinistra con i famosi fatti di Ungheria del 1956; nel mondo cattolico, con il rinnovamento conciliare; nelle nuove generazioni, quelle dei nati nell’immediato dopoguerra, con la rapida diffusione delle controculture e degli stili di vita “anglosassoni” e globalizzati, prima fra tutte la dirompente musica rock» e poi con la generazione successiva al ’68, alla fine degli anni Settanta, quella punk che nella provincia aretina è vivace anche nelle vallate più periferiche del Casentino e della Valtiberina. Negli anni immediatamente successivi alla rivolta del ’68, si organizzano autonomamente dai filoni ufficiali due correnti di pensiero: quella marxista e quella libertaria; insieme alla matrice culturale cattolica sono i tre filoni che guidano il pensiero di quegli anni. E qui ci troviamo al cento di questo lavoro, che analizza le controculture generazionali degli studenti e le rivolte degli operai e dei gruppi e movimenti politici che si generano anche in provincia di Arezzo: dai Giovani Comunisti del Pci al Psiup e alla Sinistra Comunista (i bordighisti), da Lotta Continua al movimento marxista-leninista (breve meteora), dai radicali ai socialisti del Circolo Salvemini, dagli anarchici (molto più organizzati in Casentino) ai cattolici “terzomondisti” che prendono come riferimenti don Milani, don Mazzi, Martin Luther King, l’Abbé Pierre, padre Balducci, don Camillo Torres. Importante e utile la parte fotografica inserita nel testo. Libro egregio perché raccoglie le testimonianze ancora vive di un nutrito gruppo di militanti di allora e alcuni elementi che attizzano la curiosità mai addormentata di una generazione mai doma. (i.b.)

F. Socrate, Sessantotto, Due generazioni, Laterza 2018, pp. 262 € 22,00
Tutto avvenne tra il 1966-69. In quegli anni si delineò una rivolta in tutte le università del mondo con modalità analoghe, a prescindere dal contesto economico, dal regime politico,  dall’ordine sociale.
Un ’68 planetario. In questa luce, calato nella storia italiana,  il ’68 breve si riduce a circa un anno. Tra l’autunno del 1967 e l’autunno successivo. È di questo ’68,  delle sue radici, della sua storia che parla il presente saggio, volutamente lasciando fuori le sue conseguenze e i suoi lasciti; semplicemente per evitare di guardarlo con gli occhi del poi.

Molte le letture che hanno accompagnato il ’68, da Cohn-Bendit alla Rossana. Nel ’68 ha prevalso l’ideologia o lo spontaneismo?  Il ’68 ha riproposto  in vesti nuove la tradizione del movimento comunista o si è connotato come movimento libertario, fautore di una democrazia radicale? Cercando la giusta distanza, tanto più che l’autrice stessa ha partecipato al movimento, attraverso tante interviste orali raccolte in un lungo arco di tempo,  l’autrice ha messo a fuoco la realtà sociale e antropologica del fenomeno, cercando di cogliere le differenze non solo nell’età e nel discrimine di genere, ma anche nella sensibile e censurata area della distinzione sociale che tra quegli studenti universitari si incardinava soprattutto nella maggiore o minore disponibilità di risorse culturali. Un saggio centrato su interviste, dotate di una intensità emotiva prepotente, con cui l’autrice stessa ha dovuto fare i conti in una negoziazione ininterrotta tra due parti di sé: la storica  e “una” del ’68. Un principio ordinatore le  ha permesso  di muoversi nelle multiformi e delicate memorie autobiografiche. Si è servita della linguistica computazionale che offre all’analisi di un testo una preziosa opportunità sul piano dell’interpretazione; non a caso è utilizzata in sociologia e nella critica letteraria. Per i dettagli relativi a questa metodologia, si rimanda alle pagine XXI-XXIV dell’introduzione, dove è compiutamente esposta e ai capitoli 2 e 3, riservati alle interviste, alle quali è applicata.ì Nel ’68 breve transitano due generazioni: la prima che include i nati nella prima metà degli anni ’40; la seconda, i nati nel dopoguerra. Questa partizione, anagraficamente rigida, è solo indicativa, ma allude a un decisivo scarto di culture e atteggiamenti rappresentativi del ’68. Schematizzando, mentre la prima generazione mutua la militanza universitaria provenendo per lo più  da esperienze di formazione politica nei partiti, che pure negli anni ’50-’60 iniziano a perdere la loro carica attrattiva, i giovani del dopoguerra, adolescenti nella fase del boom economico, sembrano disinteressati ai riti della democrazia rappresentativa e, in particolare, dei partiti; disponibili, invece, ai nuovi modelli culturali che essi abbracciano in modo spontaneo, mentre cresce l’insofferenza verso le agenzie tradizionali (famiglia, scuola e chiesa) che sentono antiquate e autoritarie. Nuove identità nascono, sempre più orientate verso forme di un inedito protagonismo giovanile, che include ragazzi e sempre più ragazze. È un saggio denso e articolato, di cui le interviste sono il nucleo centrale e, per chi ha partecipato a “quel” ’68, uno specchio di consonanze: nelle insicurezze, nel non capito e, al tempo stesso, nella percezione, di essere stati partecipi di un’esperienza unica e irripetibile. A conclusione, le parole di Daniela Monaci, nata nel 1944, sessantottina a Roma dalla prim’ora. «E io sono stata felice, in tutta quella prima fase, perché credevo proprio in questa possibilità dell’uomo nuovo, questo essere anti…essere antiautoritaria, credevo nella nuova cultura dei controcorsi, nel costruire queste relazioni diverse tra noi. Perché ho pianto quel giorno?… Dopo la manifestazione, dopo Valle Giulia… Ho pianto perché ho sentito che tutto quello… era finito. Perché ho sentito che il movimento faceva un salto, un cambiamento… diventava politica in un altro senso» (l.b.)

P. Pombeni, Cosa resta del ’68, Il Mulino 2018, pp. 128 € 12,00
Interessante, in questo saggio sul ’68, spartiacque tra il prima e il poi, “una specie di battesimo collettivo, un rito di passaggio da un mondo a un altro”, è la persistenza in ogni capitolo della riflessione sulle tematiche, gli sbocchi e gli influssi, più o meno diretti, che quella cesura avviò nel tessuto culturale, sociale e politico di allora e sulle sue propaggini nell’oggi. Quindi, non tanto un bilancio, né una rievocazione in occasione del 50esimo, quanto “una prima valutazione di cosa resta di quel momento che è stato  – lo si voglia o meno – storico”. Il saggio non contempla in modo esaustivo ciò che il ’68 fu a livello internazionale, anche se non mancano accenni – non episodici – in vari capitoli. Invece evidenzia – come novità inedita a quei tempi – l’attenzione che i movimenti studenteschi di allora riservarono a tematiche internazionali: alla guerra del Vietnam, alla rivoluzione culturale in Cina, alle lotte di liberazione in America Latina. E, nell’impostazione del saggio, quell’attenzione diffusa verso il contesto internazionale, percepita allora come interdipendenza inevitabile, si è riaffacciata e riaffermata nel primo decennio del XXI secolo, quando la mondializzazione, anche a livello di opinione pubblica, è diventata nelle cose ineludibile. Se il movimento degli studenti partì dagli atenei, ben presto permeò l’intera società, sia perché il ’68 non nacque dal nulla sia perché intercettò i problemi innescati da un mondo in trasformazione, mettendo in discussione ogni ambito della vita del Paese: dal sistema scolastico, al lavoro, alla cultura capitalistica, alla Chiesa e al mondo cattolico, al ruolo della donna, mentre un vento forte destabilizzava – sul piano del costume – un Paese che era ancora – legislativamente parlando – ancorato a un passato arretrato. In particolare, secondo l’autore, l’eredità principale del ’68 è nella ripresa di quel grido profetico che dalle piazze del Maggio francese dilagò ovunque: Ce n’est qu’un debut, continuons le combat. Le questioni poste dall’inquietudine che prese corpo nei movimenti del ’68 sono ancora sul tappeto, anzi si sono ampliate e approfondite.  Questa segnalazione non rende adeguatamente giustizia alla complessità del “libricino”, come l’autore lo definisce. Certo, per il formato ridotto. Quanto al resto, è denso nell’attraversamento delle tematiche e dei soggetti che il movimento intercettò, come è stimolante  la lettura di un passato rivisitato criticamente con affacci sull’oggi.  (l.b.)

A. Pantaloni, La dissoluzione di Lotta Continua e il movimento del ’77, DeriveApprodi 2019, pp. 156 € 16,00
È un saggio di natura storiografica che narra lo scioglimento di Lotta Continua concentrandosi in realtà su Torino, città fondamentale non solo per LC ma anche per i rapporti di forza nello scontro di classe negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durante i quali la città fu caratterizzata da un conflitto sociale che raggiunse spesso grande intensità. Il post elezioni ’76 e l’ultimo congresso nazionale dell’organizzazione generarono per Lotta Continua a Torino una lunga agonia. I tre filoni di scontro interno – le donne, i giovani studenti e gli operai – si inserirono rispettivamente nel movimento femminista e nel movimento del ’77; il giornale rimase punto di riferimento di tutti ma si candidò a diventare il quotidiano del movimento. Pur avendo il paragone, ovviamente, della funzione centrale svolta dal Pci nella gestione dei conflitti e del rapporto con lo Stato, Torino dimostrò di essere – a sinistra – un contesto particolarmente variegato, in cui convivevano, si confrontavano e si intrecciavano esperienze diverse, soprattutto nel periodo di tempo analizzato, dall’autunno 1976 alla fine del 1977, che rappresentò una fase di passaggio fondamentale nella ristrutturazione dell’intera società italiana. Il saggio è strutturato in due parti distinte. Nella prima si analizza la crisi di Lotta Continua a Torino e le dinamiche della sua dissoluzione. Un processo più che un evento che, come lo stesso ricercatore dimostra, prendeva le mosse dalla sconfitta politica di LC sul terreno elettorale (dal voto al Pci nel ’75 alla campagna per entrare nelle liste di Dp nel ’76 pensando di avere i candidati che avrebbero fatto il pieno delle preferenze) per arrivare al drammatico congresso di Rimini dell’ottobre dello stesso anno. Interessante è il paragrafo dedicato all’evoluzione del giornale del gruppo, che riuscì in parte ad assorbire il trauma e ad accreditarsi almeno per tutto il 1977 come l’organo d’informazione più importante del movimento nel capoluogo piemontese. La seconda parte del saggio è invece dedicata al movimento del 1977.  L’autore scompone l’analisi del 1977 torinese seguendo le parabole dei tre filoni di quel movimento. Dal movimento delle donne con la critica alla politica e  la costruzione di consultori e luoghi di aggregazione, agli operai che vedevano mutare velocemente il contesto in fabbrica, con i primi segni di una profonda crisi del modello produttivo. E poi il movimento studentesco e i circoli del proletariato giovanile, che pure giocarono un ruolo fondamentale, muovendosi in maniera trasversale rispetto agli altri soggetti citati e con un occhio di riguardo alla messa in campo di pratiche di lotta radicali. Ma ci sono anche due capitoli che fanno ripensare a temi spesso ritenuti difficili da indagare per gli effetti collegati: il fronte delle carceri e la lotta armata. È una lettura interessante perché l’autore affronta il tema con la logica duale del locale/globale, indagando sulle dinamiche specifiche locali (Torino in questo caso) e riflettendo sulla seconda metà degli anni Settanta, un periodo su cui c’è ancora molto da lavorare e riflettere. (i.b.)

Inchiesta, n. 200, aprile-giugno 2018 € 11,00
Dossier Il ’77 operaio in Italia. Vengono pubblicate le trascrizioni degli interventi di Sergio Bologna, Alessandra Mecozzi e Adriano Serafino al Convegno promosso dalla Fondazione Claudio Sabattini, dalla Fiom nazionale e da quella torinese.

A. Iacarella, Indiani Metropolitani, Politica, cultura e rivoluzione nel ’77, Red Star Press 2018, pp. 278 € 20,00
La crisi della militanza politica, le nuove effervescenze sociali che emergono proprio nel mezzo della prima grande crisi energetica planetaria, lo sviluppo delle questioni aperte dal ’68, spianano la strada al movimento del ’77. Molto è stato scritto su quel periodo e sul “dopo”, nulla o quasi però su alcuni paradigmi di quel movimento che possiamo, in sintesi, far rappresentare dagli Indiani metropolitani e da quell’area definita “creativa”. Iacarella, con questo interessante lavoro, cerca di coprire la lacuna. E, con buon uso di documentazione di quel momento, alla domanda ormai fatidica del “cosa è rimasto di quel movimento” risponde che i veri sconfitti sono l’area della lotta armata ma anche quell’ala politica, con obiettivi rivoluzionari concreti, la quale visse pienamente la sua sconfitta, stretta tra la lotta armata e l’azione repressiva dello Stato”. Tutta quell’altra area del ’77, che aveva fatto della critica alla politica uno dei suoi cavalli di battaglia, insieme all’innovazione culturale, alla critica e alla destrutturazione dei linguaggi, è indubbio che ne è uscita, alla lunga, sicuramente meglio rispetto alle altre anime. L’autore dedica varie pagine alla nascita e alle azioni più eclatanti degli Indiani metropolitani, sviluppatesi in particolare a Roma e Bologna con poco o nullo seguito negli altri atenei; ricostruisce storie individuali scoprendo che i figli di artisti e baronato vario avranno il loro individuale riconoscimento sociale e di immagine e gli altri no e dedica un’analisi storica anche al fenomeno rappresentato da Massimo Fagioli e il successo dei suoi seminari.  Ma in fondo, ci ricorda che gli Indiani metropolitani e il movimento del ’77 raccolsero un’eredità che andava maturando da diversi anni, che sotto la cappa dell’attivismo e della militanza a tempo pieno di migliaia di persone bolliva e che in quello snodo temporale e di scelte, scoppiò.  Ci presenta le riviste e i fogli che giocarono a rivoluzionare i rivoluzionari e che poi vennero riassorbiti dalla civiltà dell’immagine, parte della risposta del comando del capitale a un movimento spiazzante (con relativo incensamento da artisti famosi dei più noti esponenti di quell’area). Non può esimersi dal confrontarsi con quella fonte di notevoli confronti e riflessioni trasversali non solo a quel movimento ma anche a pezzi non marginali della società, che fu la “teoria dei bisogni” di Agnes Heller, lavorando sulla divisione semantica dei concetti di “bisogno” e “desiderio”. E, giustamente, ci ricorda, con una bella citazione, che non possiamo pensare che ancora oggi un quarantenne parli come Bifo o che un settantenne pensi e parli come Sanguineti e che per scrivere in modo corretto la storia del ’77  si deve lasciare da parte Toni Negri, Deleuze e Bifo e misurare in profondità le intenzioni di centinaia di migliaia di persone, un vero fiume non solo generazionale, e i loro riscontri. (i.b.) 

M. Rossi, Contro i “padroni della musica”, Dai festival alternativi ai festival autogestiti (1970-1977), Unicopli 2018, pp. 203 € 17,00 
Erano tempi di grandi, continue, mobilitazioni. Erano tempi di rivolta. E non di minoranze  circoscritte ma di tanti, tantissimi giovani.  Ma tra chi provava a gestire politicamente quella lunga rivolta, c’era chi si poneva il problema di allargare la base dei rivoltosi attivi, di uscire dalle scuole e dalle università e coinvolgere altri strati giovanili, solo sfiorati dai venti di rivolta: giovani proletari che lavoravano in migliaia di laboratori mai raggiunti dal sindacato o dai movimenti, come quelle fasce socialmente deboli che stavano nelle periferie mentali e nei 10.000 piccoli borghi dell’Italia del boom, a cui nessuno pensava come a forze attive per un processo di cambiamento democratico della società. E il collante poteva essere la musica. Insieme a una nuova leva di militanti politici (spesso “figli di nessuno” per la loro carica antagonista) era nata una nuova generazione di musicisti: da Woodstock all’isola di Wight, enormi raduni musicali avevano segnato gli anni precedenti e migliaia di complessi, gruppi, solisti, band sperimentavano nuove vie musicali. Furono (gli) anni di “gioia e rivoluzione”.  La voglia di libertà “a prescindere” si esprimeva anche attraverso la voglia di alternativo anche ai padroni della musica. Nacquero i festival alternativi: da Ballabio a Zerbo, festival concepiti come spazi liberati, sperimentazione di forme di comunismo autogestito, promosse da Re Nudo, la voce più autorevole e più conosciuta dell’underground italiano; ci furono tante piccole repliche nella provincia. Negli anni successivi, fu la sinistra rivoluzionaria a proporre forme più “grandi” e insieme gestite dall’alto, di momenti tra il culturale e il ricreativo, cercando di evitare le fotocopie dei festival de L’Unità. Dal primo Parco Lambro fino a Licola, arriva l’era dei festival del proletariato giovanile. Festival dove tutte le contraddizioni tra militanti e non, tra l’esigenza di non fallire economicamente facendo “cassa” e il problema del prezzo politico rivendicato con autoriduzioni di massa e i conflitti sociali, esplosero regolarmente e affossarono velocemente quelle esperienze.  D’altronde, con i modi di produzione del capitale non si scherza. Ti lascia spazi che considera residuali o marginali, ma se ci sono spazi di mercato, ti schiaccia. Non tanto in termini monetari quanto sotto il peso delle contraddizioni, spesso ingestibili da giovani gruppi dirigenti ingenui. Morte del movimento e delle feste? Macché! Arriva il ’77, arrivano gli indiani metropolitani, il movimento si scompone e si ricompone, arrivano nuove forme di comunicazione e feste piccole ma autogestite, arrivano energie liberate dallo scioglimento di Lotta Continua e ci sono anche le contrapposizioni tra Autonomia organizzata e il resto del mondo, arriva l’autoproduzione di suoni, musica e parole. È l’altra faccia del ’77, quella nascosta dai media nazionali. Fu l’esplosione della creatività collettiva con l’apice del convegno di Bologna a settembre e il suo corteo conclusivo. Da lì, 10-100-1000-10000 rivoli crearono strade per non morire. Fu l’esempio pratico del detto “che cento fiori sboccino, che cento scuole fioriscano”. A distanza di tempo, si comincia ad indagare anche fuori dall’immediatezza politica dei movimenti di quel lungo periodo e a pensare ai tentativi di adeguarsi gramscianamente alle tante pieghe della società. Questo libro è una piccola pietra.  (i.b.)

G. Marshall, Spirit of ’69, La bibbia skinhead, Red Star Press 2019, pp. 244 € 22,00
A tanti anni dalla prima edizione, andata in stampa nel 1991, e dalla riedizione del 1994, Spirit of ’69. A skinhead bible continua a essere uno tra i testi più esaurienti e attendibili sulla storia della sottocultura skinhead, considerata in tutte le sue incarnazioni stilistiche, musicali e politiche.  Redatto da un protagonista della scena, in grado di affrontare l’argomento in modo obiettivo e documentato, Spirit of ’69 rievoca la storia skinhead a partire dalla sua emersione dall’ala dura del modernismo, nella seconda metà degli anni ’60, passando per le contaminazioni di matrice ska, reggae e soul e, nel corso degli anni ’70, per la politicizzazione – sia a destra che, per riflesso, a sinistra – di alcuni suoi ambiti, che poi proseguì negli anni ’80 con la scena white power da un lato, e quella più tradizionalista, e talvolta apertamente di sinistra, dall’altro.  Qualsiasi opinione si abbia del libro è difficile mettere in discussione la sua rilevanza, tanto che negli anni è stato tradotto in francese, portoghese, polacco, tedesco e ora, finalmente, anche in italiano. Possiamo leggere l’interessantissima intervista a Flavio Frezza, il curatore dell’edizione italiana, sul portale: https://tonyface.blogspot.com/ dedicato ai fenomeni (sotto)culturali skin, mod, punk nelle forme meno risapute e più approfondite.

A cura di S. Bettini, Visual revolution, Grafica e esoeditoria dell’underground negli anni ’60 e ’70, Accademia di belle arti di Firenze 2019, pp. 249 s.i.p.
Questo volume parla, o meglio illustra, o meglio ancora fornisce uno scorcio sull’esoeditoria prodotta “dal basso” durante gli anni ’60 e ’70. Le immagini sono prese dai fogli, dalle riviste, dalle fanzine (auto) prodotte (e, talvolta, da schizzi, cartoline, volantini, poster) all’interno dei movimenti e delle subculture (almeno quelle sviluppatesi in occidente) nel ventennio compreso fra il 1960 e il 1979. Ci sono materiali dei beatnik, dei provo, degli hippie, degli Yippìe, delle Pantere Nere e Bianche, dei movimenti antagonisti americani e europei, degli indiani Metropolitani, dei punk del ’77 e via dicendo. In questa sede parlano le immagini, i segni, i fumetti presi dalle fonti originarie. 

E. De Donno e A. Martegani, Yes yes yes, Revolutionary Press in Italy 1966-1977 from Mondo Beat  to Zut, Via industriale 2019, pp. 540 € 45,00
Il volume indaga la scena italiana della stampa rivoluzionaria di “organi” editoriali in foglio, giornale, rivista, ciclostilato, bollettino, fascicolo, alcuni quotidiani altri periodici, spesso irregolari, altri aperiodici di cui molti numeri unici in reiterata attesa di autorizzazione… La febbrile attività tipografica si lega alla serrata politico-ideologica, antagonista e contro-culturale di un periodo di lotta, conquista di spazi civili, aree di libertà e di creatività sociale. In questo volume si censiscono e selezionano criticamente più di 600 stampati usciti tra il 1966 e il 1977. Questa ricerca è la continuazione naturale della corposa pubblicazione, uscita nel 2014 ed edita dagli stessi editori: Yes Yes Yes, Alternative press, 66-77 from Provo to Punk, curata da Emanuele De Donno ed Amedeo Martegani. Quel primo volume esaminava il ruolo della stampa alternativa, underground e controculturale europea ed americana in un periodo fiorente: 1966-1977; questa nuova edizione si concentra sulla scena italiana, la cui ampia strategia di “connivenze” e la frastagliata geografia regionale hanno posto la necessità, per sezionare tematicamente il percorso, di dare una visione allargata dei mezzi di stampa alternativa, non solo underground, indipendenti e contro-culturali, ma anche della contro-informazione, della editoria “schierata” ultra-radicale politica quindi ideologica. Il nucleo consistente di testate censite nella prolifica rete italiana che si allarga anche alle province è stata reperita grazie ai contributi di archivi messi in rete, collezionisti, cultori, editori e attivisti da tutta Italia che costituiscono una geografia sommersa dell’editoria contro-culturale italiana ma anche di un collezionismo resistente e ragionato. Questi mezzi stampa documentano una ricerca di cultura radicale, di autori e co-autori, promotori/artisti di cultura libera ed alternativa, distribuita in formati di confine e sperimentali.

A cura di Tobia D’onofrio e G. De Martino, Voglio vedere dio in faccia, AgenziaX 2019, pp. 231  € 15,00
Una profonda immersione nella spiritualità della prima controcultura beat/ hippie mette in luce la sua influenza sul presente. Un cut-up di scritti di Gianni De Martino dagli anni Sessanta a oggi svela uno stato d’animo simile a una febbre i cui i germi provengono da lontano: dal Dioniso di Nietzsche che prometteva di trasformare la vita in un’ebbra vacanza, da Rimbaud che sognava il Natale sulla Terra, forse dal giovane Siddharta o da chissà quale altro demone di passaggio. Lo sguardo acuto, poetico e implacabile dell’autore ci accompagna in una narrazione senza tempo tra una serie di problematiche sociali, antropologiche e politiche, ancora “non riconciliate”, lasciando emergere un’originale chiave di lettura del contemporaneo e una visione estatica del mondo simile a quella dei “nuovi dionisiaci” delle culture giovanili attuali. Interviste a:
M. Crichton, Dalai Lama, W. Gibson, A. Hofmann, G. Lapassade, M. Maffesoli, F. Pivano.

L. Lippolis e P. Ranieri, La critica radicale in Italia, Ludd 1967-1970, Nautilus 2018, pp. 566
€ 25,00 L’opera è divisa in tre parti: la prima, L’occupazione definitiva del nostro tempo, di Leonardo Lippolis, è un excursus storico (persone, pubblicazioni, sigle, iniziative ecc.), succinto ma sostanzialmente esauriente, a parte alcune lacune. La seconda parte, Vecchie favole intorno a un giovane fuoco, di Paolo Ranieri, è una lunga riflessione “politica”, seppure nel solco dell’antipolitica. La terza parte, la parte più consistente e più interessante, raccoglie i documenti: giornali, volantini, manifesti che offrono inedite testimonianze sugli eventi e il clima di quegli anni. Il libro è il primo di una trilogia che tocca i primi anni Ottanta del Novecento, composta da: Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e oltre. A oltre mezzo secolo, il libro getta vividi bagliori su un’epoca che, in Italia, visse una stagione del tutto eccentrica nel contesto internazionale, sia riguardo alla cosiddetta contestazione studentesca sia riguardo al ciclo di lotte operaie che attraversò il decennio 1967-1977. Certamente, Ludd fu una fuga in avanti, non solo rispetto al grigio clima cultural-politico italiano ma anche rispetto a quello internazionale, apparentemente più effervescente. Ma, forse, solo apparentemente. Le sue argomentazioni possono oggi sembrare ingenue, a volte ambigue (mi riferisco alla spettacolare involuzione del situazionismo, su cui stendo un velo pietoso). Erano suggestioni eversive che nascevano al culmine di una fase di espansione economica che, presto, avrebbe conosciuto un inesorabile declino. Anticiparono temi che, in Italia, sarebbero stati affrontati nel decennio successivo, quando le sinistre comuniste ebbero un quarto d’ora di notorietà. Fu breve, ma fu ricco di iniziative (quasi esclusivamente editoriali), grazie alle quali, avvenne la mia crescita torica e politica. Fu una coraggiosa provocazione, di fronte al ritorno all’ovile dei più.

T. Tozzi, 1969-1989. Le radici dell’hacktivism in Italia, Dallo sbarco sulla luna alla caduta del muro di Berlino, Accademia di belle arti di Firenze 2019, pp. 599 s.i.p.
Quella che segue è una raccolta di materiali specifici su quell’insieme di movimenti che storicamente sono stati definiti in Italia come hacking sociale, hacktivism e cyberpunk (e che personalmente definirei hacker art). Intorno a tali movimenti vi è un contesto molto ricco di pratiche, ricerche e teorizzazioni che talvolta si sono storicamente intrecciate con i suddetti movimenti, senza però farne parte.  Questa pubblicazione vuole dunque fare chiarezza e circoscrivere il centro dei movimenti dell’hacking sociale, dell’hacktivism e del cyberpunk, lasciando in un cerchio esterno, ed esclusi da questa pubblicazione, alcuni intellettuali, artisti, professori, giornalisti, scienziati, politici, critici d’arte, collezionisti, imprenditori, etc…, il cui lavoro, sebbene di per sé meritevole e spesso vicino e interconnesso (anche a livello delle relazioni umane), storicamente non può essere associato a quello dei suddetti movimenti. Nei movimenti italiani definiti dell’hacking sociale, dell’hacktivism e del cyberpunk, vi è un’attitudine di fondo verso le questioni sociali che li rende più vicini alle correnti politiche e sindacali di origine marxista e anarchiche, che non alle correnti undeground, artistiche, intellettuali e scientifiche che essi stessi hanno comunque attraversato. Paradossalmente – e qui a qualcuno si rizzerà sicuramente la cresta –, sebbene siano stati movimenti chiaramente anti-clericali, vi è più vicinanza da parte loro con il pensiero “vero” della comunione cristiana, che non con gli obiettivi di fondo di un certo clima alternativo “radical” e molto “chic”, molto promosso dai media nazionali e molto sponsorizzato sul piano economico dai fondi pubblici e privati. Serve dunque chiarezza, se si vuole ritrovare, come è nelle intenzioni di chi scrive, un filo di comunanza millenaria nell’agire di questi soggetti. In questa pubblicazione vi è anche  un problema di economia dello spazio di pagine disponibili. 

Nella ricerca si è accumulata un’enorme quantità di dati che riguardano i vari cerchi esterni a quello centrale dei suddetti movimenti. Sebbene nel libro si cerchi di far “assaporare” alcuni di tali elementi di contesto, si rimanda a successive pubblicazioni la presentazione di tali altri materiali.

(Il volume è in rete e può essere scaricato dal sito:
www.tommasotozzi.it/pdf/Le_radici_dell_HACKTIVISM_in_Italia_1969-1989. in pdf)

A cura di A. Chiurato, The last avant-garde, Alternative  and anti-establishment reviews (1970-1979), Mimesis 2019, pp. 160 € 14,00
Le riviste underground degli anni Settanta erano innovative, provocatorie e spesso realizzate con risorse limitate. Nella seconda metà del 20° secolo, rappresentarono un fertile laboratorio per sperimentare. Sono nate sulla scia delle proteste del 1968, promosse dalla comune propensione per una sorta di rivolta, e sembravano anticipare alcune delle tendenze che si sarebbero sviluppate completamente con l’avvento dell’era digitale: da una definizione innovativa dei confini della sfera pubblica verso una struttura più originale di gerarchie tra produttori e consumatori. Una serie ricca e sfaccettata di esperienze che prestano particolare attenzione al rinnovamento richiesto da un numero di parti sociali – dal feroce femminismo di seconda generazione ai più estremi margini dell’azione politica extraparlamentare – è qui esplorato da studiosi di diversi settori di studio attraverso l’analisi dei singoli casi e/o generi specifici.Una tale matrice ha inevitabilmente attirato la rinnovata attenzione degli studi periodici: in effetti, mentre si dovrebbe dire che un tale periodo è stato di breve durata, i risultati che ha prodotto, le tracce e l’eredità problematica che ha lasciato ora si trovano nell’ambizioso, forse progetto utopico di una cultura polifonica condivisa, alimentata da una dialettica costante tra l’uno e i molti.
Gli interventi sono di: I. Piazzoni, L. Martin, L. Lefebre, L. Falciola, D. Mariscalco, A. Chiurato. (Tes-to in inglese)

Sinistra antagonista

A. Tanturli, Prima Linea, L’altra lotta armata (1974-1981), DeriveApprodi 2018, pp. 380 € 25,00
È ancora presto per affrontare con un percorso storiografico e non solo con la memorialistica individuale di protagonisti, di cui molti pentiti, il fenomeno della lotta armata in Italia negli anni ’70? Secondo l’autore, storico che si occupa di movimenti sociali e violenza politica, no. E prova a riempire un vuoto storiografico sull’esperienza e la storia politica di Prima Linea, cercando attraverso l’ordine cronologico nell’esposizione (ampiamente supportata da una ricchissima documentazione fornita da diversi archivi, da quello dello Stato a quelli dei Centri di Documentazione sui movimenti), di ricostruire il ruolo effettivo di questa organizzazione nell’area definita “della lotta armata”. Il focus cronologico riguarda tutta la storia di PL, dal 1974 al 1981, anche se sull’ultima fase – dal secondo semestre 1979 al 1981 – le cautele nel testo sono evidenti e, in pratica, gli approfondimenti veri si fermano al 1979. L’autore insiste nel combattere il concetto del “partito armato” tanto caro ad inquirenti e giornalisti e, grazie all’uso delle tante fonti (compresi molti documenti autoprodotti dalla stessa Prima Linea oltre che dal e nel movimento) dimostra il tentativo perseguito a lungo da un’area politicamente ben definita, “Senza Tregua”, di costruire un’organizzazione a cavallo tra il lavoro di massa delle avanguardie operaie e nei quartieri e l’illegalità che doveva coniugare avanguardia politica con logica militare. Il rifluire dell’antagonismo sociale in fabbrica e fuori insieme al tramonto della sinistra sociale e della stessa sinistra rivoluzionaria prima e il tramonto, poi, di quello strano movimento che fu il ’77 – crepuscolo di una lunga fase positiva per molti e aurora di nuove soggettività in lotta, per altri – insieme a un pressapochismo incredibile nella gestione di quella che doveva essere una organizzazione perlomeno semi-clandestina diffusa nelle principali città d’Italia escluse Roma, Genova e Bari, trasformarono Pl in un gruppo clandestino che vedeva recisi tutti i suoi pochi agganci alla realtà. Certamente, ci furono l’avvicinarsi del Pci all’area di governo nel ’77 e il rapimento di Moro con la messa in liquidazione di tutti gli spazi per fare politica anche con l’obiettivo di alzare lo scontro, ad incidere nella deriva militarista di Pl. Deriva spinta anche dallo shock durante il rapimento Moro, dal cambio di atteggiamento non solo del Pci visto come gruppo dirigente ma del Pci visto come famiglia allargata e base diffusa nei confronti dei “compagni che sbagliano”. Per le Br, che avevano sempre preferito muoversi a contatto con le aree “nostalgiche” del Pci , diffuse in case del popolo e dintorni piuttosto che nei movimenti fu un colpo durissimo scoprire che nessuno nel Pci e dintorni li considerava più “compagni”, ma anche per Pl, convinta di nuotare nel mare della sinistra diffusa e che invece scopriva che stava in un laghetto (e neanche tutto il laghetto era disponibile a stare zitto) riconoscibile nell’area dell’autonomia operaia organizzata (autonomia volutamente con la “a” minuscola) che si vedeva erodere gli spazi di agibilità politica da episodi come l’omicidio del giudice Alessandrini, che segnerà l’inizio della fine politica di Prima Linea. D’altra parte, è ancora ben presente nella memoria di molti il giudizio impietoso se non sprezzante che girava in quegli anni su Pl e ricordato da Tanturli. Ed effettivamente, se si pensa alla mancanza completa di compartimentazione, a come è crollata la sede di Firenze (quasi tutti arrestati alla fine di una cena in trattoria!) o alla lunga e dolorosa sequela di pentiti, i quali, pur di salvarsi, hanno coinvolto nei processi a carico di PL oltre 950 persone, perlomeno molto pressapochismo e pochissimo spessore politico, sono gli elementi che segnano in modo indelebile la storia di Pl. Vero è che l’autore ha fatto un grande e rigoroso lavoro di ricerca. Pare di capire che questo sia il I volume prodotto da un lavoro di lunga lena, dove tra gli aspetti più interessanti c’è il tentativo costante di non perdere di vista il complesso rapporto tra lottarmatisti, crisi dei movimenti e dell’insieme della sinistra rivoluzionaria e la profonda ristrutturazione della società italiana in tutte le sue pieghe. Da leggere, con calma, ma da leggere. (i.b.)

P. Staccioli,  A. Davanzo, Con ogni mezzo necessario, Red Star Press 2018, pp. 173 € 15,00
Si tratta di otto biografie di militanti rivoluzionari italiani, alcuni morti, ammazzati nelle strade o in carcere altri ancora vivi e attivi; tutti legati all’area della lotta armata o dell’illegalità praticata in Italia e facenti riferimento a due “famiglie” rivoluzionarie ben distinte tra loro: il marxismo leninismo delle Br e l’area anarchica, informale e non solo.  Percorsi totalizzanti, sicuramente coerenti e, spesso, seguiti da chi ha scelto questa pratica, con grande lucidità e fino in fondo. Certo però, che pensare o scrivere che questa sia, in sostanza, l’unica area di opposizione rivoluzionaria in questo Paese, è una concessione enorme all’autovalorizzazione soggettiva di chi ha contribuito, in perfetto contrappasso con lo Stato e con i veri poteri forti, alla distruzione politica dei movimenti sociali e di quelle forze politiche che, pur con tante contraddizioni e troppo infantilismo, hanno provato a costruire una nuova sinistra rivoluzionaria. (i.b.)

M. Scanavino, Potere operaio, La storia. La teoria, Volume I, DeriveApprodi 2018, pp. 185 € 18,00
A strappare l’organizzazione politica Potere Operaio dell’oblio in cui sembrava essere precipitata nella seconda metà degli anni Settanta, contribuì l’azione penale intrapresa il 7 aprile 1979 contro i suoi principali dirigenti, accusati di essere il “comitato” direttivo di tutti i gruppi, Brigate Rosse in primis, che praticavano la lotta armata. Accusa inverosimile, come poi si dimostrò, ma intanto gli arrestati si fecero qualche annetto di carcere. Quell’evento ha imposto la successiva storytelling del gruppo in due modi: ha dato spazio e risalto, dopo le vicende giudiziarie, alla memorialistica dei protagonisti e alle ricostruzioni da pubblico ministero; ha imprigionato la ricostruzione dei fatti in un paradigma già fissato e solo da riconfermare scegliendo, tra la documentazione possibile, solo quella favorevole alla narrazione precostituita. Non è questa la via scelta da Marco Scanavino che, invece di “legare” la storia di questa organizzazione al “letto di Procuste”, le ridà piena libertà, strappandola dal senso comune dell’odierno presentismo dove ciò che è noto non corrisponde al conosciuto. Quando si vuole ricostruire «da un punto di vista storico le vicende di una formazione politica, non ci si può che attenere a quanto essa all’epoca dichiarò, scrisse e fece”, precisa l’autore in una nota. La storia del gruppo si articola lungo tre indirizzi di ricerca: il rapporto col costrutto teorico e politico dell’operaismo, così come si configura negli anni Sessanta; il tentativo di sciogliere il nodo della rivoluzione nelle società a capitalismo avanzato nel secondo dopoguerra; il ruolo di Potere Operaio nella genesi della lotta armata. Che in Potere Operaio, come in molti altri gruppi della sinistra extraparlamentare, nei primi anni Settanta si sia discusso di uso della forza, di insurrezione, di rivoluzione, è innegabile, soprattutto nel clima e nelle circostanze date dai primi anni Settanta. Tuttavia, Potere Operaio non fece mai la scelta organizzativa di passare alla lotta armata, come fecero altre formazioni quali le Brigate Rosse e i Gruppi di Azione Proletaria. A trattenerlo dal compiere quella scelta, vi era l’impostazione di fondo secondo la quale l’eventuale sviluppo della lotta armata doveva avvenire in un rapporto diretto con la crescita di lotte di massa, col maturare della consapevolezza della necessità della rottura rivoluzionaria tra larghi strati delle classi subordinate. (Diego Giachetti)

G. Roggero, L’operaismo politico italiano, Genealogia, storia metodo, DeriveApprodi 2019, pp. 150 € 9,00
Nel corso del Novecento sono esistiti più operaismi, declinati in varie forme politiche e sindacali. Quello di cui si parla in questo libro è un operaismo che non ama la condizione operaia, non ne fa un’icona, non santifica il lavoro e il lavoratore, anzi agisce affinché gli operai si ribellino contro se stessi, contro la loro condizione per liberarsi da quel ruolo, negarsi come capitale variabile al servizio di quello costante e liberarsi dal lavoro così come lo vuole il capitalismo. Gli operaisti non cercano gli operai idealizzati dalla tradizione socialcomunista, cercano gli operai che non amano il loro lavoro, rifiutano la propria condizione e il capitale che la produce. Essendo un “prodotto” italiano, l’operaismo nasce da una rottura col marxismo dominante nel secondo dopoguerra, pregno di idealismo, come ricorda Mario Tronti, separandosi senza timore anche dall’icona intoccabile di Gramsci. L’operaismo quindi non è definibile come un’eresia all’interno della chiesa marxista, è un atto di rottura con essa, tant’è che gli operaisti si definiscono, fin dalle origini, marxiani e non marxisti. […] (dalla recensione di Diego Giachetti da: «dalla parte del torto»)

Storia

M. Amorós, Primitivismo e Storia, Nautilus 2018, pp. 70 €   7,00
Dello stesso autore Nautilus ha pubblicato dal 2009 al 2015 La città totalitaria, L’Alta velocità marcia e Prospettive antidustriali, ora seguiti dal presente saggio, offerto ai lettori senza alcun copyright. Miguel Amorós (1949), fin dal 1968, partecipa in Spagna a gruppi anarchici e autonomi e, dopo il carcere sotto la dittatura franchista, esule in Francia continua la sua militanza anche nella ricerca storica. Il saggio muove dai riti estatici della fertilità e della morte di tipo agrario presenti già nel VI millennio a.C. che, nella valle dell’Indo, diedero vita al culto di Shiva, poi diffusosi nell’Asia Minore, in Egitto (Osiride), in Grecia (Dioniso) e nella restante Europa. Tali culti propugnavano il ritorno alla natura, luogo dell’armonia originaria e della libertà totale, perdute con il costituirsi delle società stanziali; le quali in tali riti orgiastici vedevano una minaccia verso l’ordine costituito. In sintesi il tema centrale è il conflitto  tra libertà originaria e costrizione sociale, tra natura e storia, tra istinto e ragione; un filone fertile che attraversa la storia europea, dalle origini ai nostri giorni e che questo saggio ripercorre in modo stimolante.Di questo articolato excursus segnaliamo due snodi che l’autore evidenzia:  il cambiamento di ottica seguito all’opera di Hegel, elaborata nel cuore della Rivoluzione francese (XIX secolo) e lo sviluppo dell’etnologia, dell’antropologia e degli studi sulla preistoria (XX secolo). Il primo fa riferimentoal socialismo rivoluzionario (di Marx) e riformista (dell’ultimo Engels) e all’anarchismo (di Bakunin) ridotto a specializzazioni (di Kropotkin). Sia Marx che Bakunin provengono dalla Sinistra hegeliana.
Il secondo ridimensiona definitivamente il mito dell’età dell’oro attraverso lo studio delle culture primitive avvicinate nel 1900.Chiudono il testo una bibliografia articolata e, in Appendice, un intervento dell’autore intitolato Primitivismo e Rivoluzione che, a mo’ di conclusione, salda in un unicum uomo e natura.
Amorós conclude sostenendo che la disumanizzazione della società ha portato con sé  l’idealizzazione della natura; ma la natura prima della storia non esiste nemmeno per i primitivi. Per liberare la natura e gli uomini sono necessarie le rivoluzioni, unico modo consapevole di fare la storia. (l.b.)

P. Veyne, Palmira,  Storia di un tesoro in pericolo, Garzanti 2016, pp. 104 € 15,00 
L’autore, storico e archeologo tra i massimi esperti di storia antica dimostra in queste pagine di essere anche uno scrittore brillante. Il sottotitolo di questo lavoro è Storia di un tesoro in pericolo e, in effetti, in queste pagine si racconta della nascita e dello sviluppo di una città che deve la sua fortuna all’essere incrocio di mercanti e merci, di spezie e di culture diverse ma con famiglie che aspiravano a superare la logica delle tribù volendo assumere un ruolo politico più importante nell’impero romano. Fino a costruirsi una semi indipendenza dalla lontana Roma con un proprio esercito che sbarrava il passo ai persiani e, con la Regina Zenobia, a coniare una propria moneta. Da lì a esprimere direttamente l’imperatore di Roma il passo fu breve e nefasto, visto che il figlio di Zenobia venne sconfitto in battaglia da altri pretendenti all’impero e della Regina si persero le tracce. Ma la lunga storia di Palmira, la “Venezia del deserto”, ci racconta tante cose; ci racconta della tolleranza che permetteva ai mercanti di arricchirsi e dotare di monumenti quella città che da porto carovaniero si trasformò in elegante città abitata da una tribù siriana che parlava aramaico e arabo ma che aveva abitudini e lingua ufficiale ellenizzate. E da lì, con l’arrivo di nuovi consoli romani la sua identità divenne ancora più ibrida con la necessità politica di rispettare le diverse religioni e la necessità commerciale di avere un governo regionale forte. 
Le testimonianze di una città tanto affascinante quanto piene di storia hanno avuto dei colpi durissimi dalla sua occupazione da parte dell’ISIS che, in nome della guerra agli idoli, ha distrutto buona parte della città archeologica e ha trucidato i suoi ricercatori e custodi. La cosa interessante di queste pagine si può affermare che sia l’inno alla multiculturalità, perché per dirla con Veyne «ostinarsi a conoscere una sola cultura, la propria, significa condannarsi a vivere una vita soltanto, isolati dal mondo che ci circonda». (i.b.)

C.E. Bouillevaux, H. Mouhot, La scoperta di Angkor, Una disputa, ObarraO 2016, pp. 65 € 7,00 
Il libro fa riferimento all’accesa disputa che nell’ 800 sorse tra i sostenitori del missionario apostolico Bouillevaux e quelli del naturalista Mouhot in relazione a chi fra i due dovesse spettare il primato per aver scoperto i resti della antica città di Angkor in Cambogia. Cronologicamente il primo a visitare l’antica città era stato il missionario Bouillevaux nel 1850, il quale aveva poi descritto il suo viaggio nel libro Viaggio in Indo-Cina pubblicato nel 1857. Mouhot aveva invece visitato Angkor nel 1860 e i suoi scritti vennero publicati postumi nel 1870.  Tuttavia, l’originalità dei suoi scritti dotati  di illustrazioni assai dettagliate e precise e misurazioni di templi e monumenti che risultarono corrispondere alle reali dimensioni colpirono a tal punto il pubblico occidentale che a Mouhot venne attribuito il titolo di “primo scopritore della città di Angkor”, ciò ovviamente a discapito del missionario Bouillevaux. Nel libro vengono riportate le descrizioni che entrambi gli autori scrissero in relazione alla loro visita; ciò permette di poter fare un confronto tra il diverso modo di scrivere dei due autori, gli scritti di Bouillevaux documentati ma poco enfatici, quelli di di Mouhot dettagliati e rivelatori del fatto che l’autore fosse conscio della valenza che i suoi scritti avrebbero avuto. (s.b.)

C. Pascal, L’incendio di Roma e i primi Cristiani, Mimesis 2011, pp. 77 €    5,90
Il filologo classico Carlo Pascal in questo libro mette in dubbio che il vero artefice dell’incendio della città di Roma fosse stato l’imperatore Nerone. Attraverso una serie di prove  addotte dallo studioso e a uno stile piacevole e a tratti investigativo l’autore cerca di dimostrare che i veri colpevoli furono proprio i primi Cristiani i quali all’epoca erano ancora una comunità segreta. “L’annunzio della distruzione ignea decretata da Dio per la loro generazione, la credenza che il regno di Dio non verrebbe se non fosse distrutta la romana presenza, fu la scintilla delle fiamme che divamparono sterminatrici” questa è l’ipotesi che il filologo porta avanti nel corso del libro. (s.b.)

E. Le Roy Ladurie,  Montaillou, Storia di un villaggio occitano durante l’Inquisizione, Il Saggiatore 2019, pp. 670 € 39,00
Emmanuel Le Roy Ladurie, allievo di Fernand Braudel,  esponente di spicco dell’Ecole des Annales, è uno dei maggiori storici francesi viventi. In questo testo, che universalmente è considerato la sua opera principale, mette sotto osservazione Montailliou, piccolo paese dell’Occitania meridionale tra il 1318 e il 1325, indagato dall’Inquisizione, per sradicare gli ultimi resti dell’ eresia catara. A capo dell’Inquisizione vi è Jacme Fournier, vescovo di Pamiers e futuro papa Benedetto XII.
Dal “Registro d’Inquisizione”, lo storico – nella prima parte – conduce un’indagine esplorativa di Montaillou, partendo dall’insieme del villaggio, del suo territorio e della sua società, considerando due realtà, integrate e antagoniste: quella rurale e quella pastorale.  Sedentaria la prima e nomade la seconda; la prima fondata sulla “domus”che a un tempo indica la casa, la famiglia e la rete di relazioni parentali, nella quale dominante per ruoli religiosi e amministrativi della giustizia è la famiglia dei Clergue e in particolare Pierre Clergue, prete della Chiesa di Roma, ma ambiguamente eretico e doppio giochista; la seconda, fondata sulla “cabana”, alloggio di fortuna e luogo di lavoro  dei pastori che, prossimi ai boschi e in altura, vivono isolati, liberi da vincoli familiari e, in quanto transumanti, di fatto in contatto con realtà e concezioni che valicano l’abitudinarietà del villaggio. Figura simbolo di questa condizione è il pastore Pierre Maury, antitetico a Pierre Clergue.La seconda parte dell’indagine storica è più stratigrafica, più minuziosa; investiga più in profondità il mondo dei gesti che costellano la quotidianità, l’affettività nelle sue varie forme e, infine, il mondo della cultura e socialità contadina, paesana e popolare, intendedella ndo per “cultura” il senso globale che le attribuiscono gli antropologi. (l.b.)

L. Mečnikov e R. Risaliti, Gli antagonisti dello Stato in Russia, La storiografia russa e sovietica, stampato in proprio 2016, pp. 1223 s.i.p.
Vengono riproposti in riproduzione anastatica tre saggi di Mečnikov pubblicati nella rivista «Kolokol» in francese. Completa il volume un saggio del Risaliti sulla storiografia delle guerre contadine che stanno ad indicare le quattro grosse sollevazioni contadine (Bolotnikov, Razin, Bulavin e Pugačev) che in quattro epoche diverse hanno sconvolto per anni il tradizionale assetto della Russia feudale.

L. Mečnikov, Storia della letteratura politica in Italia, Con un documento su Garibaldi e la camorra a cura di R. Risaliti, stampato in proprio 2017, pp. 167 s.i.p.
È straordinario che la prima storia della letteratura politica italiana sia di uno straniero, Mečnikov, che l’ha pubblicata in Russia in  tre articoli sulla rivista «Delo» nel 1872 e che ora Risaliti ripropone tradotti. Molto interessante la divisione che fa: periodo dell’indipendenza dalle origini al 1530, periodo del dominio straniero dal 1530 alla rivoluzione francese ed infine l’ultimo periodo dell’unificazione italiana dalla rivoluzione francese  all’Ottocento.

S. Bono, Schiavi, Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo), Il Mulino 2016, pp. 481 € 28,00
Questo volume descrive e analizza la schiavitù mediterranea fra il Rinascimento e l’età napoleonica. Narra la storia di sei-sette milioni di persone: neri africani, turchi, arabi, ma anche italiani, tedeschi e inglesi; iniziando dalle catture per terra e per mare fino alla spiegazione del loro ruolo all’interno sia della vita domestica che di quella pubblica. Infatti gli schiavi erano costretti al lavoro forzato su navi o in miniere, oppure potevano essere impegnati in proprio come sarti o barbieri, fino a poter essere acquistati come servitori o concubine. Una storia drammatica che non deve essere dimenticata, riportata in questo volume con una ricchissima documentazione. (g.a.)

C. Tombola, Ventisei lezioni di storia del Novecento, Manuale essenziale, Fondazione Luigi Micheletti 2016, pp. 243     s.i.p.
Questo Manuale essenziale è il primo libro di testo – cioè destinato a docenti e studenti di storia dei licei e delle superiori – che esce prodotto non dall’industria editoriale scolastica ma “autoprodotto” all’interno del sistema scolastico stesso e in controtendenza con gli standard imposti dall’industria. Ha un numero di pagine limitato, una forte densità informativa, ha eliminato gli apparati complementari, fa ricorso alle nuove tecnologie per il corredo iconografico e di cartografia storica, e alla fine di ogni periodo storico fornisce consigli di “lettura” -– romanzi, film, ascolti musicali – piuttosto che bibliografie per specialisti. È un tentativo di riportare i contenuti – non le competenze – al centro del lavoro di classe, e di ribadire la centralità dell’insegnante nell’insopprimibile lavoro di mediazione e di guida all’interno del testo. Al tempo stesso, vuole contribuire alla riflessione sul “secolo lungo” novecentesco e sulla sua eredità, senza false – quanto impossibili – neutralità nell’interpretazione dei fatti storici e nella costruzione di nessi causali che legano il passato all’odierno. Non casualmente, uno dei principali fils rouges di questa lettura è il tema ambientale, anche alla luce della stimolante postfazione di Giorgio Nebbia.

T. Parczewski, Kronštadt nella rivoluzione russa, Colibrì 2013, pp. 311 € 14,00
La testimonianza del polacco Tomasz Parczewski sugli avvenimenti di Kronstadt tra il 1917 e il 1921 e la ricerca dei curatori del presente lavoro aggiungono elementi di conoscenza alla poco documentata vicenda dei marinai di quell’isola, permettendo così di rinnovare il ricordo di quell’atto di insubordinazione al potere. Le memorie di Parczewski mostrano come Kronstadt, oltre ad essere stata uno dei pilastri della Rivoluzione Russa, ne abbia anticipato tutte le tappe. I bolscevichi, unici e intransigenti avversari della guerra in corso, presero il potere nel 1917 e negli anni successivi imposero il “comunismo di guerra”. Nella primavera del 1921 Kronstadt insorse collettivamente contro il potere bolscevico, i suoi organi assembleari furono attivi fino alla disfatta totale. Dopo l’attacco dell’Armata rossa al movimento di Kronstadt, e la sua sconfitta, Lenin accantona il “comunismo di guerra”. Inizia la Nep, la Nuova Politica Economica; il giovane Stato sovietico comincia ad aprirsi a quelli capitalisti con concessioni e licenze, e riprende forzatamente l’industrializzazione del paese. L’abbattimento del capitalismo non era avvenuto, tutto viene rinviato. Molti liquidano la ribellione di Kronstadt del 1921 affermando che “una rivoluzione nella rivoluzione” non era possibile, né tollerabile, che la situazione interna e internazionale non lo permetteva. Altri la definirono la “terza rivoluzione”, una utopia che, se attuata, avrebbe cancellato le conquiste fatte dalla Rivoluzione d’ottobre.

V. Romitelli, L’enigma dell’Ottobre ’17, Perché ripensare la “rivoluzione russa”, Cronopio 2017, pp. 156 € 12,00
Il libro di Romitelli analizza i fatti che hanno preceduto e seguito la “rivoluzione russa” dell’Ottobre 1917, per tracciarne un bilancio e definirne la portata simbolica. La rivoluzione bolscevica del 1917 ha segnato direttamente o indirettamente le esistenze di quattro generazioni di persone di tutto il mondo, e le sue conseguenze più profonde continuano a produrre effetti ancora oggi. Il discredito, che dopo il 1989 ha investito il comunismo in ogni sua accezione, ha inevitabilmente portato ad una cancellazione della memoria di questo evento. Certo è che per ragionare sulla fine di questa storia, non si può non ripartire dalla sua origine, dunque dall’Ottobre 1917. Resta comunque un fatto incontestabile: se la giustizia sociale dopo la Grande Guerra è tornata a essere una questione politica cruciale per qualsiasi governo, ciò ha avuto come sua origine la rivoluzione bolscevica. Prendendo le distanze dall’anticomunismo oggi trionfante e dalle nostalgie dei fedeli al leninismo, il libro tende a mostrare che l’enigma della rivoluzione russa ha da offrire ancora molte lezioni politiche, proprio quando la giustizia sociale è scomparsa ovunque da quasi quarant’anni. (l.c.)

S. Nash-Marchall, I peccati dei padri, Negazionismo turco e genocidio armeno,  Guerini e Associati 2018, pp. 274 € 18,50
Il volume fornisce un contributo essenziale nel campo degli studi sul genocidio armeno. È da circa una trentina d’anni che storici e studiosi hanno iniziato ad occuparsi di questa tragica pagina della storia, dopo decenni in cui dell’esistenza stessa degli armeni come popolo si era quasi perduta la memoria. Nel processo di conoscenza e consapevolezza di questo tragico esempio di una prassi di distruzione di massa che avrà tanti imitatori nel corso del Novecento, l’Autrice trova le oscure e lontane radici di quelle ideologie e di quei comportamenti che a posteriori appaiono aberranti, ma di cui spesso non riusciamo a comprendere la ragione profonda. Impiega i metodi della filosofia per riflettere sulle cause di ciò che non può che essere considerato un male terrificante, analizzando in particolare come la Turchia odierna stia ancora continuando a negare, di fatto, il genocidio perpetrato dai Turchi Ottomani, e mettendo in evidenza con ampia documentazione come il problema dell’accanito negazionismo di Stato sia parte integrante del processo genocidiario iniziato più di cento anni fa.  L’assoluto disprezzo dei fatti e delle genti, del territorio e della storia, è la caratteristica comune che lega il genocidio del 1915 con l’attuale governo turco, rinnovando di fatto nei cuori e nelle menti dei discendenti delle vittime l’orrore di quella immane tragedia. (l.c.)

E. Schnack Cavalcoli, Una ragazzina nella Germania di Hitler, Edizioni del Girasole 2015, pp. 207 €  15,00 
Eva Schnack, nata nel 1926 a Darmstadt in Germania, iniziò a scrivere questi ricordi durante gli anni ’70, mentre il marito stava scrivendo le sue memorie. La ragione per cui decise di scrivere quest’autobiografia è per mostrare la vita di una ragazza tedesca durante la dittatura, anche se la sua famiglia non ha mai avuto un ruolo di protagonista nel nazismo ne ha mai partecipato alla Resistenza. All’interno di questo libro sono descritti importanti fatti storici tra cui non solo gli accesi contrasti tra i comunisti e i nazionalsocialisti, ma anche la fine della Germania durante la guerra. (a.c.)

V.G. Zaitsev, Il nemico è alle porte, L’assedio di Stalingrado raccontato da un tiratore scelto dell’Armata rossa, Red Star Press 2018, pp. 275 € 18,00
Nato nel 1915 in un piccolo villaggio degli Urali, come primogenito, viene educato alla caccia dal nonno paterno, divenendo precocemente abile sia a catturare prede che a muoversi con sicurezza nella foresta. Nel 1929, essendo i genitori divenuti soci di un Kolchoz,  trasferitisi in una piccola città, Vassili studia con profitto d’inverno e lavora d’estate. È ormai un tiratore provetto quando nel 1937 si arruola volontario nelle forze armate sovietiche e, nel 1942, dopo aver prestato servizio presso la flotta del Pacifico a Vladivostok, raggiunge Stalingrado dove conquista sul campo una fama leggendaria che lo porterà ad essere premiato come Eroe dell’ursa. Nelle pagine autobiografiche la drammaticità dello snodo della battaglia di Stalingrado, ultima frontiera su cui si gioca la Storia, è sintetizzata dalla laconica frase di Vassili: «Non c’è terra per noi oltre il Volga». Come tiratore scelto, fu utilizzato tra i cecchini, uomini  (ma anche donne – secondo le fonti – da 300 a 2.000) che agivano in vere e proprie squadre, a “copertura” di postazioni fisse, ma anche infiltrandosi dietro le linee nemiche. Questi militari specializzati, finita la guerra, lasciarono l’Armata Rossa; tra gli altri Zaitesv, morto nel 1991, dopo una vita di ingegnere tessile e direttore di fabbrica. (l.b.)

E. Mauro, Anime prigioniere Cronache dalmuro di Berlino, Feltrinelli 2019, pp. 203 € 18,00 Le fughe folli e l’ipnosi del potere, i divieti, i permessi, le minacce e i silenzi.  Berlino: cronaca dell’ultima rivoluzione nel cuore dell’Europa. Il blocco comunista si sgretola e si affranca dalla prigionia del Muro, che separava il mondo correndo per 156 chilometri e divideva così una città e l’Europa intera. Era un simbolo del titanismo totalitario, non una semplice barriera: era un’arma. Ed era destinato a fallire. La caduta del Muro riunisce le due Berlino, che in una notte ritornano per sempre una sola città, e libera il pezzo di Europa che per decenni era finito dietro la Cortina di ferro, segnando il passaggio da un’epoca all’altra. È l’ultima rivoluzione nel cuore dell’Europa.  Ezio Mauro ricostruisce in una cronaca serrata, corale e politica, il romanzo di Berlino e della sua ossessione di pietra, fino alla capitolazione finale, fino a quando «il Muro non garantisce ormai più il potere e il potere non protegge più il Muro. Questa è la formula della caduta, la chiave di Berlino, il saldo del Novecento». 

R. Barthes, I carnet del viaggio in Cina, Prefazione di Renata Pisu, Obarrao 2015, pp. 251 € 15,00 
Nell’aprile del 1974, Roland Barthes parte per conoscere la Cina in compagnia di un gruppo di intellettuali francesi. È sottoposto a un programma serrato di visite a fabbriche, scuole, ospedali, coltivazioni agricole, quartieri cittadini, mentre i delegati locali sfornano informazioni e cifre sui successi della Cina maoista.  Barthes mostra ben presto insofferenza verso l’onnipresente discorso ideologico. La sua attenzione si rivolge altrove, alle persone, ai gesti quotidiani, al gusto dei cibi, all’erotismo dei ragazzi cinesi, ai colori del paesaggio, e soprattutto agli imprevisti, agli incidenti di percorso che sfuggono alla censura e dissolvono il velo dell’artificio. Nei carnet cinesi, non destinati al pubblico e perciò segreti, Barthes scrive quello che vede, quello che gli dicono i cinesi, quali sono i suoi pensieri, quali i suoi giudizi, tutte prime impressioni. C’è la Cina di quell’epoca, ovvero la Cina così come era  e non quella che  il potere voleva che fosse.

Z. Bauman, Oltre le nazioni, L’Europa  tra sovranità e solidarietà, Laterza 2019, pp. 44 €   3,00
L’agile libretto è una riflessione a largo spettro sull’origine della “crisi di fiducia” che attraversa l’Europa; molti gli spunti e i filoni che si intersecano per convergere verso la risoluzione che la speculazione di Bauman propone. Data la complessità del testo, inversamente proporzionale alla sua brevità, proviamo a sintetizzare il filo rosso che lo percorre, lasciando, a chi lo leggerà integralmente, il piacere di scoprire le molte sollecitazioni proposte. Il testo – scritto nel 2012 – viene riproposto anche per la sua “straordinaria attualità”.  Qual è questa attualità? “Oggi è ancora più chiaro… che nessuna delle agenzie politiche esistenti/tramandate, nate al servizio di una società integrata a livello di Stato-nazione, è adeguata al suo ruolo, e che nessuna è abbastanza intraprendente da poter affrontare i vasti compiti di oggi, e a maggior ragione quelli di domani.” Da qui lo scetticismo verso le istituzioni. Segue un excursus sulla nozione di sovranità dello Stato territoriale che ebbe la sua prima configurazione nella Dieta di Augusta nel 1555 quando i principi dinastici, cercando una via d’uscita dai confitti di religione che dilaniavano l’Europa cristiana, opponendosi alle pretese papali di sovrintendere i loro domini, affermarono il principio secondo il quale chi governava  decideva la religione dei propri sudditi (cuius regio, eius religio).
Dopo quasi un secolo di guerre e devastazioni, nel 1648 si affermò la “sovranità vestfalica”. Da allora, in gran parte dell’Europa, attecchì il principio della sovranità di ogni principe sul suo territorio e su chi vi risiedeva, fondamento della nascente Europa moderna.  “Per qualche secolo, quell’ordine tremando rimase… in linea con la realtà dei suoi tempi… Ma oggi non è più così”. E, nonostante questo, “viviamo tuttora nell’era post-vestfalica e ci stiamo ancora leccando le ferite… che la formula del cuius regio, divenuto nella seconda parte eius natio ha inflitto…  agli organismi sociali che… lottano per proteggere e conservare la propria integrazione.” Se questa è la sfida in sé, molte le questioni – da essa derivanti – da affrontare. Lo stimolo all’integrazione politica e il fattore necessario affinché progredisca è da Bauman individuato nella “visione condivisa di una missione collettiva”. Dove trovare nell’Europa del 2012 una simile missione?
Esiste un ambito in cui l’Europa ha acquisito un’esperienza che non teme confronti. Nella sua storia è riuscita ad apprendere e in modo ricorrente a praticare l’arte di convivere. Alcuni esempi nel tempo: 1) Roma che “dalle umili origini seppe assurgere a struttura ecumenica e allo splendore di un impero durato sei secoli, grazie alla prassi sistematica con cui si concedevano a tutti i popoli conquistati e annessi pieni diritti di cittadinanza e di accesso incondizionato alle più alte cariche dello Stato”, Roma multietnica, politeista, tollerante e inclusiva; 2) mentre l’Europa occidentale, in un secolo di guerre di religione, si dilaniava, ad est del fiume Elba si affermava un esempio alternativo al sistema vestfalico: il Commonwealth polacco-lituano che diede vita a uno stato generoso “nel concedere alle minoranze etniche, linguistiche e religiose diffuse in tutto il suo territorio autogoverno e rispetto delle identità culturali. 3) alle soglie della prima guerra mondiale, l’Impero austro ungarico “imperniato  sul principio dell’autonomia di gruppi etnici e culture e governato da Vienna, all’epoca incubatrice culturale” dei più fecondi contributi alla filosofia, psicologia, letteratura, musica e arti, riuscì – unica tra le grandi monarchie del tempo – a derogare alla tendenza dominante verso l’intolleranza. Non vi è dubbio che le due principali imprese moderne, strettamente interconnesse, la formazione delle Nazioni e degli Stati  produssero intolleranze. Là dove si affermavano le lingue nazionali, venivano repressi e delegittimati gli idiomi locali; le Chiese di Stato perseguitavano le “sette” religiose e la “memoria nazionale” esigeva la soppressione della memoria collettiva locale. “A tutti noi tocca di vivere in un’era di diasporizzazione crescente e probabilmente inarrestabile che promette di trasformare tutte le regioni d’Europa in «gruppi di popolazioni miste» ( Hannah Arendt)”. Stime demografiche aggiornate (2012) preconizzano, da una parte, nei prossimi 50 anni una riduzione della popolazione dell’U.E. di circa 240 milioni di unità (con ricadute sullo stile di vita) e, dall’altra, se non arriveranno nel continente 30 milioni di stranieri, il collasso del sistema. Di fronte all’«invasione», la paura porta a evitare o interrompere le comunicazioni con chi è visto – se il processo non è governato –  come un vettore di rischi, destabilizzante.
In assenza di comunicazione reciproca non c’è modo di verificare le proprie fantasie e paure e sempre più diviene arduo un modus co-vivendi. Tali atteggiamenti, indotti dal fallimento delle politiche nazionali di protezione sociale, in mano a uomini politici tanto ambiziosi quanto inefficienti davanti allo strapotere delle forze del mercato e delle borse, demonizzano gli stranieri. Sia quelli stabili, inseriti, che quelli alle porte. La paura viscerale nutre altra paura che si avvita in una spirale pericolosissima. Il futuro dell’Europa politica dipende dalle sorti della cultura europea e, nello specifico, dalla nostra padronanza di trasformare la differenziazione culturale da passiva in attiva, di vedere in essa non qualcosa da tollerare, ma da valorizzare come risorsa, uscendo definitivamente dall’era post-vestfalica, centrata sull’omogeneizzazione culturale, per misurarsi con l’altro paradigma che pure percorre la nostra lontana e recente storia che, sulla tolleranza, fonda l’integrazione e che nel multiculturalismo innesta la sua fertilità. Per  dirla con R. Sennett, “il modo  migliore per entrare in contatto con la differenza è quello di cooperare in modo informale e aperto”: dove ogni aggettivo  ha un valore cruciale. «In questo gioco – conclude Bauman – i guadagni e le perdite sono concepibili soltanto insieme. O vinciamo tutti, o perdiamo tutti. Tertium non datur». (l.b.)

Storie d'Italia

C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Laterza 2019, pp. 496 € 28,00
Il volume analizza i dieci anni decisivi per le sorti dell’Italia, tra il 1860 e il 1870. Il saggio, molto documentato, ricco di materiali “nuovi”, racchiude dentro la cornice della “guerra per il Mezzogiorno” le vicende complicate e oscure di italiani, borbonici e briganti che determinarono il successo dell’unificazione, ma marcarono il Sud – per sempre – coll’inchiostro indelebile di un’anomalia italiana: di terra, che ebbe partecipazione non riconosciuta e controversa alla nazione risorgimentale. L’interrogativo di fondo è se il brigantaggio fu l’eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo, oppure, diversamente, la sfida allo Stato di bande criminali. La tradizione storiografica, pur con punti di osservazione che risentono di miti patriottici, nostalgie borboniche e narrazioni malcerte, ha mantenuto (sul brigantaggio) il giudizio di fenomeno eversivo e criminale. Pinto, correggendo questa impostazione di parte, lascia sul campo vincitori e vinti e chiama “guerra della nazione” la guerra al brigantaggio, sostenendo, invece, che fu nient’altro che una storia di italiani contro italiani; una guerra non assimilabile a nessun’altra, ma sempre una guerra con “combattenti” sull’uno e sull’altro fronte: quello piemontese e quello meridionale. Quel che appare certo è che il “debito” nei confronti del Sud rimane non pagato, con tutte le appendici politiche-ideologiche che caratterizzano la divisione che ormai sembra permanente tra Nord e Sud. (Domenico Nunnari)

G. Ferraro, «Resistere», Trincea e prigionia nell’Archivio Barberio, Con le biografie dei prigionieri di Dunaszerdahely in Ungheria, Pellegrini 2018, pp. 254 € 18,00
Attraverso fonti pubbliche e private (italiane e austro-ungariche) anche inedite l’autore riesce a ricostruire il complesso mondo delle trincee e dei campi di prigionia durante la Prima guerra mondiale. L’esperienza individuale di Bernardo Barberio, capitano nel 142° Reggimento fanteria Brigata Catanzaro, serve all’autore per ricostruire i modi della partenza al fronte, la vita in trincea, i rapporti con la popolazione civile e con le gerarchie militari, le fasi dei combattimenti, la prigionia nei campi austro-ungarici e i tentativi da parte dei prigionieri di resistere alla fame, al freddo, all’abbattimento umano e morale. La ricerca ha permesso il più delle volte anche di dare un nome ai quasi 700 prigionieri transitati dal campo di Dunaszerdahely in Ungheria. Destini individuali e collettivi, grandi e piccoli eventi, narrazione e interpretazione, si intrecciano nelle varie fasi di questa ricerca scientifica offrendo un quadro originale e per molti aspetti unico della Grande guerra a 100 anni dalla sua fine.

R. Primi, Ricordi di guerra, Racconto scritto fra il 2 ottobre 1919 e il 28 gennaio 1924, Fondazione Museo e Centro di documentazione della deportazione e Resistenza Prato 2016, pp. 264 s.i.p.
«Per rievocare tante impressioni, tanti dolori e tante gioie che in un giro di tempo relativamente breve hanno turbato quella che era un tempo la mia modesta e quieta vita di ragazzo che del mondo ancora non conosceva nulla. Ed è infatti in quella ventina di mesi di vita militare che ho visto ed imparato più che in tutti gli anni della mia vita precedente: è stata certo una scuola crudele, dalla quale se ho imparato qualcosa non è altro che a costo di grandi dolori, che solo chi ha provati può comprenderli» scrive Renato Primi nell’introduzione a questo lungo racconto. Renato Primi fu richiamato in guerra il 25 giugno 1917 e assegnato come soldato al 300 Genio. Travolto dalla rotta di Caporetto a San Giovanni Manzano, fu fatto prigioniero sul Tagliamento il 30 ottobre 1917 e solo il 2 dicembre 1918 fece ritorno a Prato dopo aver  conosciuto il campo di concentramento di Limburg e le miniere di carbone. Con questo testo Renato ci ha lasciato una memoria avvincente di eventi solitamente affidati a diari o scritti frammentari.

A. Maroni, Quando il buon dio volle…, 1917-1918 Il ripiegamento al Grappa e la prigionia in Austria nelle memorie di un alpino dalignese del Battaglione Valcamonica, Museo della guerra bianca in Adamello 2017, pp. 255 € 17,00
È la testimonianza dell’alpino Amerigo Maroni, un muratore originario di Villa Dalegno (frazione nel comune di Temù, Brescia), nelle montagne bresciane, caporale maggiore nella 252a compagnia del Battaglione Valcamonica. Anch’egli, infatti, come tanti altri reduci, nei mesi successivi alla conclusione del conflitto ha affidato alle pagine di un quaderno i ricordi per lui più significativi della propria esperienza militare, nel suo caso focalizzati sul momento più difficile: la prigionia. 

S. Nanni e C. Morganti, La grande guerra, Per non dimenticare, Arcidosso. I caduti, i reduci, la comunità, Effigi 2018, pp. 462   € 22,00
Un libro senza retorica e con numeri, testimonianze e documenti che arrivano dritti al cuore, quello di Carlo Morganti e Susanna Nanni, frutto di un lavoro di ricerca certosino sulla Grande Guerra, ultima guerra d’indipendenza e d’unità nazionale italiana. Un lavoro con tutti i crismi della scientificità e del rigore, che si configura certamente come la monografia più completa e convincente su Arcidosso durante la Prima guerra mondiale.

G. Giannini, L’inutile strage, Controstoria della Prima guerra mondiale, Luoghinteriori 2018, pp. 253 € 19,00
Il taglio originale del volume consiste nell’occuparsi degli obiettori di coscienza, delle crocerossine, dei cappellani militari impegnati nella Prima guerra mondiale. Vengono esaminati documenti, fornite cifre e percentuali, ricordati e ricostruiti minuziosamente episodi accaduti in quegli anni. L’ autore affronta anche le ragioni della memoria storica, dai cippi alle lapidi, alle cerimonie per il Milite Ignoto, alla istituzione dei parchi della rimembranza o dei sacrari. Il libro ci restituisce in pieno il clima storico di quegli anni, determinanti per la storia del mondo e di tante vittime innocenti “falciate come spighe”, cadute sui campi di battaglia e spesso rimaste anche senza un nome e un cognome, grazie anche alle imperizie tattiche o strategiche dei generali a cui invece sono state intitolate vie.

M. Ingrao, «Il dolore bolscevico non è più», La guerra dei monumenti e la rimozione della memoria proletaria della Grande guerra, Prospettiva marxista 2019, pp. 53 s.i.p.
Negli anni immediatamente successivi alla conclusione della Prima guerra mondiale, la questione del “come” ricordare quel trauma collettivo di inedita portata non poteva essere confinata nelle modalità del dibattito storiografico, nella sfera di un confronto meramente culturale o nelle raccolte dinamiche dell’elaborazione di un lutto esclusivamente privato. Le letture, le interpretazioni che si contrapponevano erano parte integrante di un momento di violento scontro politico, di una fase di intensa lotta di classe. Una sciagura causata dalla malvagità umana e da scongiurare in futuro con l’avvento di uno spirito di fratellanza dalla rinnovata matrice religiosa? Un eroico sacrificio con cui è stata forgiata la nazione? O una micidiale dimostrazione delle potenzialità distruttive del capitalismo e delle classi dominanti, una terribile riprova della necessità della rivoluzione proletaria? Sappiamo quale di queste interpretazioni alla fine si impose. Lo sappiamo anche dalla presenza capillare di monumenti, cippi e lapidi che, realizzati tra le due guerre mondiali, attestano il prevalere della versione nazionalista, patriottica, poi recepita e ulteriormente plasmata ed elaborata dal regime fascista. Ma quella vittoria nella lotta per la memoria fu possibile solo rimuovendo, distruggendo, cancellando dallo spazio pubblico tutti i monumenti, le epigrafi con cui il movimento operaio aveva affermato il proprio rifiuto della guerra voluta dalle classi dominanti. Questa guerra dei monumenti e delle lapidi può fornire un angolo di visuale particolarmente utile per una riflessione su come è stata costruita e imposta la memoria “ufficiale” della Grande Guerra e su come questo passaggio storico abbia costituito uno sviluppo fondamentale nella storia della lotta di classe nella società capitalistica.

V. D’Aquila, Io, pacifista in trincea, Un italoamericano nella grande guerra, Donzelli 2019, pp. 257 € 28,00
New York, 1915. Il giovane italoamericano Vincenzo D’Aquila scappa di casa per arruolarsi volontario nelle file dell’esercito italiano, pronto ad andare incontro «al mulino della morte per la grandezza della madrepatria». Arrivato a Napoli e poi trasferitosi a Palermo, sua città natale, viene iscritto nel 25° reggimento della brigata Bergamo e mandato in montagna a combattere in trincea insieme ai soldati semplici. Il suo entusiasmo si affievolisce però davanti alla cruda realtà del fronte e all’atrocità del conflitto. Subentra allora in lui una visione mistica che lo spinge a imbracciare il fucile, ma con la ferma volontà di non sparare neanche un colpo, per tutta la guerra. Questa è la sua «chimerica promessa»: piuttosto che uccidere un altro uomo morirà lui stesso, ma è fiducioso che Dio, la sua «invisibile guardia del corpo», lo proteggerà. Per la prima volta in versione italiana l’incredibile storia vera di un pacifista in trincea tra complicate strategie messe in atto per tener fede alla sua promessa e l’avversione dei suoi superiori che lo considerano un pazzo più che un profeta, tanto che sarà allontanato dal fronte e internato in alcuni ospedali psichiatrici. Sopravvissuto al conflitto, D’Aquila rientra negli Stati Uniti, dove anni dopo scrive il racconto della sua esperienza, pubblicato nel 1931 con il titolo Bodyguard Unseen. A true autobiography. Il libro, nonostante le critiche positive, cade presto nell’oblio. In Italia rimane inedito, probabilmente perché il fascismo non gradisce l’implicito inno alla pace che racchiude. Nato come sintesi introspettiva di una personale «odissea di guerra e pazzia», il racconto di D’Aquila costituisce oggi non solo un prezioso documento, utile agli storici e agli studiosi, ma anche un racconto avvincente di come sia possibile sopravvivere alla guerra, senza sparare un solo colpo.

A. Genovali, Fare come in Russia, La Repubblica viareggina, i disordini nel derby con la Lucchese e l’insurrezione del 1920: una storia del «Biennio Rosso», Red Star Press 2018, pp. 117 € 13,00 
Sembrava solo una partita di calcio, invece era l’incontro tra lo Sporting Viareggio e la Lucchese, non un “semplice” incontro sportivo, dunque, ma l’evocazione di una sfida che, da sempre, nell’immaginario dei partecipanti, opponeva la borghesia del capoluogo agli operai della provincia, trasportando il tema del pallone dal campo da gioco al terreno della lotta di classe. Accadde così, il 2 maggio del 1920, a Viareggio, che l’intera formazione della Lucchese fu costretta a fuggire per i campi per sottrarsi alla folla inferocita. Ma non solo. Dopo che un carabiniere aprì il fuoco e uccise un viareggino, la storia accelerò il suo passo e, sostenendosi sulle solide tradizioni anarchiche e socialiste dei lavoratori marittimi e portuali, chiamò il popolo alla lotta, ricordando come fosse giunta anche in Italia l’ora di «fare come in Russia», vale a dire sovvertire a beneficio dei molti tutto ciò che allo stato delle cose presente esisteva soltanto a favore di pochi. Si dipanano così le brevi ma intense giornate della Repubblica viareggina: un’insurrezione popolare che anticipa le future repubbliche partigiane e a cui Andrea Genovali rende il giusto tributo storiografico, scrivendo una pagina inedita in quello che resta il percorso di lunga durata della guerra civile italiana.

Storia Ribelle, n. 50, primavera 2019 s.i.p.
I disertori dell’impero del duce. I giovani sudtirolesi, sloveni, croati ed italiani che rifiutarono la guerra d’Africa di Mussolini è il titolo della pubblicazione che presenta un unico lungo saggio diviso in capitoli.  Roberto Gremmo, dopo un’iniziale presentazione del pretesto che portò alla guerra contro l’Etiopia nel 1935 e dei trattamenti riservati a chi criticava il regime, racconta del frettoloso rimpatrio degli operai italiani dall’Africa orientale che generò reazioni sfavorevoli al fascismo, delle fughe di giovani in Jugoslavia e di altoatesini in Austria, degli abitanti del Sud Tirolo che si rifiutavano di marciare per il duce, della diserzione in varie regioni italiane, delle notizie inquietanti sulla guerra che circolavano tra la popolazione preoccupata per il destino dei soldati. Altri argomenti e un interessante ampio apparato di note completano il saggio.

Italia contemporanea, n. 286, aprile 2018 € 36,00
Manuela Patti nel saggio Palermo e la guerra (1940-1943) si propone di osservare un periodo della guerra in Sicilia solitamente trascurato: quello che precede lo sbarco alleato. Viene posta l’attenzione sulla popolazione, sul ruolo del regime e i suoi apparati, sulla classe dirigente che lo rappresentava e sulle scelte a livello centrale e locale. 

R. Paoli, Cronache di una guerra combattuta senza armi (1943-1946), Pagnini 2014, pp. 184 € 16,00
Rodolfo Paoli, nato a Firenze nel 1905, insegnante di letteratura germanica e filologia tedesca all’Università di Firenze, ci rende testimoni della sua vita dal 1943 al 1946, anni decisivi per la storia d’Italia. Queste memorie, dettate due anni prima della morte avvenuta nel 1978, sulla base di un diario del 1943-1946, sono, oltre ad un importante documento storico, una testimonianza viva e sentita di una persona che partecipa attivamente ai grandi fatti della Storia. L’Autore ci fa rivivere il dramma della guerra nella campagna fiorentina con gli eserciti in movimento, le difficoltà quotidiane per la sopravvivenza, i brevi momenti di speranza, il difficile ritorno alla normalità al termine della guerra. Mettendo spesso a rischio la propria vita, è stato sempre un punto di riferimento importante per la popolazione del luogo, anche grazie alla sua conoscenza del tedesco. Antifascista convinto, Paoli ci ha dato un grande esempio di integrità morale e impegno civile. (l.c.)

A cura di R. Salvi e L. Gargano, Aiutati dai nemici, L’eroico coraggio dei civili italiani che salvarono i soldati indiani in fuga dal campo di prigionia, Cultura e dintorni 2018, pp. 291 € 15,00
È una storia vera, di crescita e formazione. Il giovane Salvi all’annuncio dello scoppio della Seconda guerra mondiale sente con una certa incoscienza il vento dell’avventura e si arruola come volontario, diventa ufficiale di un contingente indiano britannico, si imbarca per l’Egitto e si ritrova il 21 giugno del 1942 nella battaglia di Tobruk durante la quale viene catturato. Ed è qui che inizia la vera avventura. Salvi è trasferito al campo di prigionia di Avezzano, in Abruzzo, dove si trova nei convulsi giorni successivi all’8 settembre 1943. Con quattro commilitoni indiani riesce a fuggire e, perduto in un Paese straniero incontra  Romano, uno dei cinquecento abitanti di Villa San Sebastiano piccolo borgo alle pendici del monte Aurunzo, nella Marsica, che offre a Salvi e ai compagni ospitalità, rifugio, cibo, protezione e, soprattutto umanità.

S. Zurlo, Quattro colpi per Togliatti, Antonio Pallante e l’attentato che sconvolse l’Italia, Baldini+Castoldi 2019, pp. 245 € 17,00
Antonio Pallante, personaggio ignoto con un passato difficile fatto di vandalismi e un eroico (e inconsapevole) sabotaggio ai danni dell’Italia fascista, si rese protagonista di uno dei fatti più drammatici della nascente Repubblica. Il 14 luglio sparò a Togliatti.  Stefano Zurlo è un giornalista che ha intervistato Antonio Pallante, e ne ha tratto un corposo libro nel quale ripercorre tutta la vicenda, nonché quel che successe dopo. Erano i giorni in cui si doveva decidere la collocazione internazionale dell’Italia. E Togliatti aveva votato contro il Piano Marshall. Nelle piazze i comunisti si scatenarono, ci furono morti. Togliatti sopravvisse e, dal letto d’ospedale, ordinò ai suoi di star fermi: a Yalta era già stato tutto deciso. La vittoria di Bartali al Tour de France smorzò i bollenti spiriti e l’Italia scansò l’insurrezione.
 

The  Panthers, Ora Basta!, Clichy 2019, pp. 171 €   9,90
«The Panthers» sono un gruppo di scienziati politici ex militanti della Pantera, l’ultimo movimento studentesco organizzato che occupò quasi tutte le università italiane nel 1990. È stato l’ultimo grande sussulto delle università italiane. Dopo di che, il nulla. E sono passati quasi 30 anni.  Alcuni dei protagonisti di quella stagione che coinvolse tutti gli atenei d’Italia si sono ritrovati e hanno scritto questo pamphlet che prova a risvegliare le coscienze non tanto della melassa chiamata “italiani” quanto, almeno, dei partecipanti a quel movimento. Lo fanno su varie direttrici: dalla cultura al concetto di Europa unita, dalla forma dello Stato a tanti altri temi sociali, politici, di giustizia, etici. Il giudizio pesantemente negativo lo lasciano al governo di Salvini.  Hanno scritto un manifesto dove rivendicano un programma minimo per il rispetto delle regole, a partire dalla Costituzione e insieme una traccia di riferimento per temi importanti per chi voglia ricostruire un’opposizione politica che non c’è.  È uno dei tanti elementi di riflessione necessaria per ridare a questo Paese un po’ di decenza e di dignità. (i.b.)

M. Boato, La lotta continua, Libri di Gaia 2019, pp. 200 € 10,00
Passa il tempo, la lotta continua ma vede nuovi protagonisti e alcuni dei contestatori e animatori del  ciclo chiamato “il lungo ’68 italiano” sentono il bisogno di rimettere in fila le proprie memorie sui fatti di quegli anni. Questo libro non è una autobiografia ma la ricostruzione di una esperienza lunga 25 anni, che inizia citando la resistenza partigiana del padre della voce narrante fino alle giornate di Marghera dell’agosto 1970, passando per il dissenso cattolico degli anni ’60, le esperienze dei cristiani di base, l’adolescenza in una famiglia con quattro fratelli più grandi e tutti impegnati in vari movimenti, il lungo ’68 veneziano fino alle lotte del Petrolchimico e alle barricate di Marghera e alla nascita di Lotta Continua a Venezia e provincia. Ma questo è il primo libro di un progetto ideato per quattro volumi; ne aspettiamo altri tre che l’autore pensa di pubblicare in tempi relativamente brevi e che ripercorreranno la storia delle varie esperienze dal punto di vista di un militante veneziano e del suo territorio. (i.b.) 

M. Grispigni, Quella sera a Milano era caldo, La stagione dei movimenti e la violenza politica, Manifestolibri 2016, pp. 188 €16, 00 
Bombe e stragi, agguati e sparatorie, attentati e rapimenti si susseguono durante gli anni ’70 in Italia: una presenza lugubre e ineludibile che rende questo decennio un caso unico e difficile da comparare con quanto avvenne negli altri Paesi occidentali. Questo breve libro vuole essere un’introduzione, storica ma non accademica, al tema della violenza politica in Italia negli anni ’60 e ’70, indirizzata a chi non si accontenta della damnatio memoriae che mescola in un unico calderone le stragi e le occupazioni delle università, il rapimento di Moro e Toni Negri, le lotte operaie e la P38. La tesi di fondo, basata sulla comparazione della vicenda italiana con quella di altri Paesi, soprattutto la Francia, è che non esiste una generica straordinarietà del caso italiano, valida sempre e comunque per l’intero arco della storia repubblicana, ma che al contrario è solo nel cratere della bomba di piazza Fontana del dicembre 1969, e dalle indagini immediatamente centrate sulla pista anarchica, che la vicenda italiana si avvia sulla drammatica strada che conduce agli anni di piombo.

P. Barbieri, La morte a Brescia, 28 maggio 1974: storia di una strage fascista, Red Star Press 2019, pp. 127 € 14,00
Ad oltre 40 anni di distanza, un libro sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, vissuta in prima persona da ragazzo ma indagata con la professionalità del giornalista di esperienza. Questo libro è la storia di una strage fascista, dove si racconta il contesto, cosa è successo quella mattina del 28 maggio 1974 e le indagini con il corollario di evidenti errori degli inquirenti, depistaggi e false conclusioni. In appendice sono pubblicate le tappe della vicenda giudiziaria. Emerge, ancora una volta, per chi ne dubitasse, che la strategia, definita da più parti “stragista”, degli anni ’70 è stata il lavoro più importante che apparati “riservati” dello Stato hanno svolto per fermare i movimenti sociali che premevano per  cambiare i rapporti di forza sociali e anche quelli politici in un Paese dove, invece, tutto doveva e deve restare com’è, per non turbare gli equilibri sempre più precari di un mondo sempre più piccolo. (i.b.) 

S. Ferrari e L. Mariani, L’assassinio di Fausto e Iaio, Red Star Press 2018, pp. 174 € 15,00 
Esce, a distanza di 40 anni, una ricostruzione del duplice omicidio di Fausto e Iaio, assassinati a Milano due giorni dopo il rapimento Moro. Vengono narrati i fatti, rilette le testimonianze, gli atti giudiziari e riesaminate le diverse ipotesi nate nel tempo, viene ricostruito il quadro d’insieme in cui si colloca l’episodio omicida.Viene offerta una ricca appendice e una semplice e forse la più logica delle risposte alla domanda: perché? Anche perché nonostante 22 anni di indagini svolte da più magistrati, nonostante riscontri, indizi, prove e confessioni parziali dei protagonisti in negativo, nessuno ha pagato per questo duplice omicidio avvenuto a fine inverno in un mese di marzo di quarant’anni fa. (i.b.) 

G. Colombo, Lettera a un figlio su Mani pulite, Garzanti 2015, pp. 94 € 10,00
Questo libro nasce con l’intento di spiegare alle giovani generazioni che non hanno vissuto il momento in prima persona cosa fosse e cosa abbia rappresentato “Mani pulite”. Colombo prende per mano il lettore con un linguaggio chiarissimo, amichevole, senza dilungarsi in dettagli tecnici e con puntuali spiegazioni di termini e procedimenti giuridici. Non si schiera da nessuna parte se non quella della legalità, dell’onestà, della giustizia della legge e lo fa con una sincerità e una passione tali da evitare miracolosamente il già detto, la vuota e noiosa retorica.

D. Tagliapietra, Gli autonomi. L’Autonomia vicentina, Dalla rivolta di Valdagno alla repressione (1968-1979), Volume V, DeriveApprodi 2019, pp. 256 € 19,00
Prosegue la fortunata serie de “Gli autonomi” con il quinto volume che approfondisce la storia dell’esperienza vicentina dei Cpv – Collettivi Politici Veneti. Un’esperienza che ha marcato, per le sue peculiarità, la sua presenza maggiore di iniziativa politica e fisica nelle zone dell’alto vicentino con insediamenti industriali storici (Schio, Thiene ecc.) più che nel capoluogo stesso. È un racconto che scivola veloce nella lettura e introduce rispetto ai precedenti volumi, il punto di vista dell’intervento politico nella provincia profonda, quella un po’ in ritardo sul boom economico dei decenni precedenti e che si stava inventando un nuovo modello di sviluppo economico – il modello nord est, tanto decantato dagli osservatori liberisti – che avrebbe riassorbito le crisi dei centri industriali e lanciato la “fabbrica diffusa”. Più operai che studenti, tutti molto giovani, con poca tradizione di sinistra (presente ma non governante il Pci) influenzati quasi esclusivamente dall’esperienza padovana, in forte contrasto politico con i gruppi (Pdup, Ao, la stessa Lc da cui i meno giovani usciranno alla metà degli anni ’70) tanto da non riconoscergli spesso l’agibilità politica nel movimento, costruiranno le pratiche politiche e militari principalmente intorno alla figura operaia, anche con significative vertenze fuori dalle confederazioni sindacali e vincendone più di una con veri risultati economici e di diritti sindacali acquisiti e da qui, un riconoscimento sociale significativo. Si inventeranno anche nuovi organismi quali i “Gruppi sociali”, un tentativo di riunificare bisogni e pratiche politiche là (quartieri periferici, paesi più piccoli) dove c’è maggiore difficoltà nell’organizzazione e lì faranno diventare anche organismi decisionali veri, superiori ai coordinamenti operai o studenteschi. Alla repressione generale derivante dalla operazione conosciuta come “7 aprile” risponderanno in vario modo ma le notti di fuoco e le violenze delle ronde proletarie avevano lasciato ricordi, prove e nomi. Alcuni ci lasceranno la vita, molti saranno costretti all’espatrio verso Parigi. Un’esperienza che ha avuto punti alti di lotta e risultati concreti ma che non ha saputo capitalizzare le sue capacità e i risultati per praticare egemonia sociale. Un’esperienza su cui riflettere anche per la sua peculiarità, l’essere cresciuta in un territorio senza aggregazioni particolarmente importanti come l’Università ma anzi, un’area che vedeva nuove forme di accumulazione del capitale da parte di nuovi soggetti sociali che alla rivolta collettiva hanno preferito vie più veloci per migliorare la propria condizione materiale attraverso lo sfruttamento del proprio territorio, della propria famiglia, financo di se stessi. E lo scontro politico ed ideale per l’egemonia sociale è stato deciso lì. Lì, dove la storia ha preso un altro corso. (i.b.) 

G. Cacciatore, Uno sbirro non lo salva nessuno, Flaccovio 2017, pp. 192 € 18,00
Questo libro racconta la vera storia della scomparsa da Palermo di Emanuele Piazza, un ragazzo di 29 anni, di ottima famiglia che ama anche la vita di strada: vie dritte e trazzere tortuose, gente giusta e gente sbagliata, quella che si muove tra lealtà e prepotenza. Proveniente da una famiglia di avvocati, decide di diventare un poliziotto. Questo giovane Serpico – come lo “sbirro” del cinema, suo eroe dell’adolescenza – è fuori dagli schemi: vive con una scimmia indiana, un pitone e un rottweiler, ama la lotta libera, le moto, le immersioni subacquee e quelle nella realtà criminale dei quartieri difficili. La sua esistenza “al limite” non conoscerà perdono in una Palermo dove uscire dal seminato significa dissolversi. Se non fosse stato per la caparbietà e il rigore investigativo del giudice Giovanni Falcone, e anche per l’ostinazione dei familiari di Piazza, la verità sulla misteriosa scomparsa di questo ragazzo non sarebbe mai venuta fuori. Sarebbe rimasto uno dei misteri d’Italia, tanto più che dietro a questo caso sarà svelato, moltissimo tempo dopo, un intrigo di servizi segreti, mafia, omertà, amicizia tradita e quanto di più oscuro si possa immaginare. Questa “non fiction novel”, basata su atti giudiziari e testimonianze dei familiari di Emanuele, ha la prefazione di Giuseppe Pizzo, autore e inviato della trasmissione Chi l’ha visto? di Rai 3, nonché ex poliziotto dello Sco (Servizio centrale operativo) di Roma. Perché Emanuele Piazza andava in giro con una lista di nomi di 136 sanguinari latitanti di Cosa nostra? Perché accanto a ogni nome era segnata una taglia milionaria? Chi lo aveva incaricato segretamente di dare la caccia ai boss? Come mai, quando Emanuele sparì, nessuno si assunse la responsablità di quell’incarico, addirittura negandolo? Nel libro ci sono varie risposte a tutte queste domande. (i.b.) 

C. Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo!, Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Meltemi 2019, pp. 274 € 18,00 (…)
Per Formenti occorre quindi legare nazione, comunità e socialismo rimettendo al centro le istanze, innanzitutto materiali, dei ceti popolari. Abbandonare le sirene «liberal» e pro-global della sinistra contemporanea alle quali gli stessi post-operaisti (dai quali egli pure proviene) hanno ceduto con le loro idee di «cognitariato», «moltitudine» e «Impero». Non c’è dubbio che il discorso di Formenti metta al centro temi fondamentali per il rilancio della sinistra quali la rivalutazione delle istanze materiali dei ceti popolari, l’abbandono di una politica troppo intellettualistica o la presa di coscienza del ruolo fondamentale che ancora gli Stati svolgono nel gioco politico ed conomico mondiale: da Corbyn a Sanders sono questi gli orientamenti su cui una parte della sinistra sta provando a ricostruire nuove forme e formule della sua azione politica. Tuttavia ciò che lascia profondamente perplessi nell’analisi di Formenti è l’eccessiva disinvoltura – priva di coscienza storica –  con cui viene rilanciato il legame diretto tra nazione e questione sociale: si tratta di un terreno pericolosissimo poiché senza l’intermediazione fondamentale dello Stato di diritto questi due elementi, e le stesse istanze democratiche radicali, rischiano di scivolare nel migliore dei casi nel sansepolcrismo.  Ecco perché non è nella «mela avvelenata» del populismo che la sinistra contemporanea può davvero pensare di ritrovare quel rapporto organico con i ceti popolari che, per altre vie, occorre certamente rimettere al centro della sua agenda. (Francesco Antonelli da: “il manifesto”)

C. Geloni, Titanic, Come Renzi ha affondato la sinistra, Paper first 2019, pp. 233 € 16,00 
Pensieri, parole, opere e omissioni che hanno (quasi) affondato la sinistra in Italia. La stagione di Renzi, la scissione del Pd e e le contraddizioni ancora aperte dopo l’elezione di Zingaretti raccontate senza fake news ma anche senza sconti da una testimone diretta e informata dei fatti. 

J. Iacoboni, L’esperimento, Inchiesta sul movimento 5 Stelle, Laterza 2018, pp. 233  € 16,00
Iacoboni ci offre una lettura decisamente non convenzionale del M5S che predica alcune cose come: il rifiuto assoluto di comparire nella tv italiana, la promessa di dimezzare lo stipendio ai suoi futuri politici e di vivere secondo uno stile di vita francescano, la posizione contro l’euro e lo scetticismo verso l’ Unione europea. Promette la democrazia attraverso internet ed esalta la meritocrazia, denunciando la piaga dei tanti ragazzi italiani costretti a cercare fortuna all’estero.  Per ognuno di questi cavalli di battaglia emergerà lo scollamento tra come il Movimento si è proposto inizialmente a elettori e attivisti e quel che realmente ha fatto sino a oggi. 

P. Karlsen, Vittorio Vidali, Vita di uno stalinista (1916-56), Il Mulino 2019, pp. 311 € 33,00
Nato nel 1900 e formatosi nella Trieste post-imperiale del primo dopoguerra, Vittorio Vidali è stato un rivoluzionario e dirigente del movimento comunista internazionale, la cui pluridecennale militanza è passata attraverso momenti e scenari di capitale importanza nella travagliata storia della prima metà del Novecento. La periodizzazione scelta, dal 1916 al 1956, è legata allo stalinismo di Vidali: inteso sia come quel complesso di principi, norme e pratiche in vigore nell’Unione Sovietica e nel Comintern nel periodo in cui Stalin fu al potere, quale approdo soggettivo di un percorso di vita e di formazione politico-culturale.  Ciò perché il comunismo è inteso sia nella sua dimensione di rete politico-organizzativa di ampiezza globale, ma anche in quella esistenziale, come visione del mondo ed esperienza individuale intessuta di relazioni e scambi transnazionali.  La fisionomia di Vidali quale agente del Comintern’ si va man mano strutturando nel corso delle missioni negli Stati Uniti e nel Messico degli anni Venti, intersecandosi per sua stessa natura con gli oscuri ambiti di competenza propri dei servizi segreti sovietici. A lungo sentimentalmente legato alla fotografa Tina Modotti e circondato dall’amicizia di figure di spicco dell’ambiente intellettuale e artistico del suo tempo (da Ernest Hemingway a Pablo Neruda, da Joris Ivens a Hannes Meyer, a Rafael Alberti), come fondatore del Quinto Reggimento e protagonista della difesa di Madrid durante la guerra civile spagnola il nome di Vidali, ammantato nel leggendario appellativo di comandante Carlos, assume un rilievo internazionalmente riconosciuto all’interno del movimento comunista e dell’antifascismo in generale. Frutto avvelenato della medesima stagione, parallela al mito e altrettanto duratura prende forma intorno a Vidali una leggenda nera che lo vorrà coinvolto in alcuni tra i più chiacchierati delitti politici di sospetta matrice sovietica a cavallo della Guerra fredda.

M. Scotti, Vita di Giovanni Pirelli. Tra cultura e impegno militante, Donzelli 2018, pp. 291 € 27,00
Erede di una delle più importanti dinastie industriali d’Italia, Giovanni, in quanto primogenito maschio, è destinato a succedere al padre Alberto nella direzione dell’impresa.  Ma i suoi interessi sono diversi e, anche umanamente, si sente tagliato per altri approdi. Il rapporto con tale famiglia è causa negli anni della formazione di un temperamento  riflessivo e introverso che lo porterà a emanciparsi definitivamente  dall’ambiente a cavallo degli anni ’40-’50 quando lascerà Milano e l’impiego nell’industria di famiglia.  L’atto finale sarà il matrimonio nel 1953 con la pittrice Marinella Marinelli, artista e comunista, celebrato con rito civile in Campidoglio a Roma. Scrive la moglie: «la famiglia cattolica di Giovanni impose una specie di matrimonio segreto, non accettava il solo rito civile e io per giunta ero pittrice e comunista: quindi niente familiari, niente festeggiamenti, niente notizie sui giornali». Mariamargherita Scotti si incarica di ripercorrere la sua vita e lo fa attraverso quattro capitoli densi e impegnativi che è difficile sintetizzare adeguatamente, tanti sono gli spunti di riflessione e i contesti che si intersecano tra loro, delineando il percorso umano, formativo e politico di questo protagonista del’900 che – nato nel 1918 – esce tragicamente di scena nel 1971, quando la sua parabola evolutiva è ancora fortemente in divenire. Quattro capitoli che sfociano in una Conclusione strutturata in due parti, intitolate l’una: Una morte improvvisa, una memoria contesa, in cui la storica tenta un primo excursus delle pubblicazioni sulla complessa personalità di  Pirelli; e l’altra  Voci, in cui cede direttamente la parola a quanti lo conobbero. Frutto di una lunga ricerca d’archivio, la struttura di questo libro risente in maniera determinante delle sue fonti; tra cui riveste un’importanza particolare l’archivio personale di Giovanni, per la prima volta accessibile in tutta la sua ricchezza  e, attraverso molte testimonianze orali finora inedite,  illumina aspetti originali, a tratti tormentati e controversi del lavoro di Pirelli,  dei suoi posizionamenti, della sua militanza nel Psi all’esperienza della Nuova Sinistra. Nei primi anni ’50, insieme a Pietro Malvezzi, cura l’edizione presso Einaudi del volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana e poi europea; opere di grande successo, che ampliano la sfera dei suoi collegamenti oltre i confini nazionali. Al centro di molteplici iniziative culturali e politiche, il nostro si interessa di cinema, musica e teatro, entrando in contatti di collaborazione  con Luigi Nono, con il Living Theatre ecc; così come nella militanza propriamente politica frequenta le menti più fertili e innovative della Sinistra, personaggi con cui condivide profonda affinità e grande amicizia, come Renato Panzieri precocemente scomparso e, sul piano internazionale, al tempo della guerra di liberazione algerina, Frantz Fanon di cui curerà presso Einaudi le Opere Scelte. In questo periodo e successivamente conosce esponenti e movimenti anticolonialisti in Africa, a Cuba, negli USA e in Cina, dove – lasciandosi alle spalle Parigi in pieno Maggio studentesco – membro di una delegazione farà esperienza diretta della Rivoluzione Culturale. Testo impegnativo, imprescindibile, sia come affresco polifonico di un’epoca, sia come opera di consultazione, ricchissima di riferimenti. (l.b.)